Nel ghetto di Borgo Mezzanone in Puglia il caporalato è una pratica ordinaria. Anche se si tratta di bambini. Ce lo racconta il sito sbilanciamoci.it in un reportage di Antonio Ciniero.
Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia, dista appena 10 km da Foggia, da alcuni anni è una delle tappe obbligate delle traiettorie del lavoro agricolo in Puglia per migliaia di migranti costretti, come altrove, a vivere all’interno di ghetti istituzionali o spontanei.
Tra i diversi ghetti che offrono precario riparo ai lavoratori stagionali, c’è una baraccopoli che più di tutti gli altri sembra catapultare chi vi giunge molto lontano, in altre epoche o in altre latitudini.
Questo posto invisibile e tuttavia ben evidente dalla strada statale, sorge su un terreno privato con il perimetro delimitato da pali, un traliccio dell’alta tensione e da alcune pale eoliche. Non è contiguo ai vicini luoghi dell’esclusione di Borgo Mezzanone: tutto intorno, solo distese di terra a perdita d’occhio. A un lato della baraccopoli, un grande fossato – in passato utilizzato come vascone per l’irrigazione – è stato trasformato in una discarica a cielo aperto dove sono conferiti i rifiuti che nessun servizio d’igiene pubblica smaltirà mai.
Gli abitanti del campo sono circa 800: tutti cittadini bulgari, nella quasi totalità provenienti dalla cittadina di Sliven1. Si tratta di interi nuclei famigliari, uomini e donne rom, che lavorano come braccianti nella raccolta del pomodoro, dell’uva, e poi, con l’avanzare delle stagioni, delle cime di rapa, dei finocchi, ecc. È il loro lavoro, assieme a quello degli altri braccianti della Capitanata, sottoposto a livelli di sfruttamento altissimo, che permette di consumare sulle tavole italiane e di mezza Europa i rinomati prodotti agricoli made in Puglia.
A differenza degli altri ghetti rurali, in cui massiccia è la presenza di adulti, per la maggioranza uomini, la metà di chi ci vive è costituita da bambini, moltissimi di pochi anni.
Il numero degli abitanti del ghetto bulgaro varia in base ai periodi dell’anno: cresce in estate e diminuisce via via che ci si inoltra nei mesi invernali. Dalla fine di settembre, moltissimi, con i bambini, fanno ritorno in Bulgaria, e gli abitanti si dimezzano, per divenire meno di cento tra dicembre e aprile. In questo periodo, restano solo i pochi che continuano a lavorare in campagna anche in inverno.
“In Bulgaria abbiamo le case, ma non abbiamo il lavoro. Per questo siamo qui”, mi ripetono i braccianti con cui parlo. Con i risparmi faticosamente messi da parte grazie al lavoro in Italia, queste famiglie riescono a vivere in Bulgaria durante i mesi invernali, ma mettere i soldi da parte per l’inverno però non è cosa facile.
Il lavoro è duro e il salario è misero. La paga, mi riferisce Iván, uno dei lavoratori del ghetto, varia rispetto al tipo di raccolta. Si riesce a guadagnare dai 20 ai 30 euro al giorno, ed il pagamento è sempre a cottimo. Il periodo dei pomodori, quest’anno, è andato peggio degli altri anni: c’è meno pomodoro e ci sono più persone, di conseguenza i salari sono scesi e come paga riceve solo 6 centesimi per ogni cassa da 15 kg, riempita con pomodori San Marzano.
Il calcolo è presto fatto: quest’anno, per guadagnare almeno 20 euro – con le tariffe che mi riferisce Iván e mi confermano altri 3 braccianti – bisogna riempire al giorno oltre 330 casse, quasi 5 tonnellate di pomodori raccolti durante le 10 ore di lavoro. Una media di 33 casse riempite in un’ora, meno di due minuti a cassa. Un ritmo estenuante, inumano da mantenere, soprattutto sotto il sole dell’estate pugliese.
Non c’è alternativa a questo, dice Iván, questo è il lavoro e questo si deve fare…vorrei fare altro, ma non c’è lavoro in Italia…c’è la crisi, ripete, come mi hanno ripetuto, in sostanza, prima di lui quasi tutti gli altri braccianti con cui ho parlato negli ultimi 5 anni.
1 Sliven dista da Sofia circa 350 km e conta 100.000 abitanti. Oltre il 30% degli abitanti di questa città sono rom e, tra questi, sono moltissimi ad avere avuto esperienze migratorie stagionali in Europa occidentale.
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