A Roma nelle ultime settimane sono stati eseguiti 6 sfratti di associazioni e centri culturali, a 73 sono arrivate le determinazioni di sgombero e un numero indeterminato di enti non profit ha ricevuto ingiunzioni al rilascio delle sedi e al pagamento di presunte morosità (quasi tutti i 235 che fanno parte di un elenco di 800 soggetti che hanno la loro sede in locali di proprietà del Comune). Tra questi ci sono moltissime associazioni di volontariato e centri culturali, come Per la Strada, che si occupa dei senza fissa dimora della stazione Termini; A Roma Insieme-Leda Colombini, che lavora con i bambini che si trovano nel carcere di Rebibbia; il Grande Cocomero, che accoglie i bambini in cura al policlinico Umberto I; Viva la vita, che si occupa di malati di Sla; Focus-Casa dei Diritti Sociali, che si occupa di migranti; la scuola popolare di musica di Testaccio fondata da Giovanna Marini; il Celio Azzurro asilo interculturale.
Tutte realtà che svolgono servizi importanti, difendono diritti, producono cultura: proprio per questo avevano ottenuto sedi con affitti agevolati, in base alla delibera 26 del 1995, che permetteva all’amministrazione di concedere locali di sua proprietà ad un affitto agevolato (poteva essere abbattuto fino al 20%), se l’associazione realizzava attività d’interesse sociale. Il senso è chiaro: l’amministrazione comunale favoriva la realizzazione di rilevanti interessi sociali e nello stesso tempo salvaguardava il proprio patrimonio (molti spazi erano abbandonati da tempo, le associazioni hanno dovuto metterli a norma e restaurarli, spesso con grande sacrificio economico).
Poi nel 2015 è arrivata, con la giunta Marino, la delibera 140, che aveva come obiettivo il riordino del “patrimonio indisponibile in concessione”: il comune voleva rimettere ordine nel patrimonio immobiliare dopo lo scandalo di Affittopoli. Nelle intenzioni della giunta si sarebbero poi dovute fare le opportune distinzioni fra le associazioni che lavoravano per la pubblica utilità e i soggetti che invece sfruttavano gli spazi del comune per interessi propri, ma la giunta è caduta e il commissario Tronca e la Corte dei conti hanno applicato a tutti indiscriminatamente lo stesso criterio. Così anche alle associazioni è arrivata l’ingiunzione a pagare gli arretrati a prezzi di mercato – qualcuno si è visto chiedere centinaia di migliaia di euro – e a liberare i locali. Come accennato, la Corte dei conti ha aperto fascicoli su 800 casi, tra cui 235 associazioni.
La parola “arretrati” può far pensare che le associazioni non avessero pagato all’amministrazione quanto pattuito, ma non è così: nella maggior parte dei casi hanno pagato regolarmente e solo dopo molti anni l’amministrazione ha rimesso in discussione le assegnazioni per fini di utilità sociale e ha negato i rinnovi delle concessioni, pretendendo il pagamento del canone al presunto valore di mercato, anche per gli anni pregressi.
Il tessuto sociale e culturale di una città già carica di altri enormi problemi ha così ricevuto un duro colpo. L’amministrazione attuale non sembra in grado di trovare soluzioni in tempi rapidi: vuole rimettere a bando i locali in questione, ma per le associazioni perdere la sede vuol dire chiudere le attività e i servizi. A meno che non si faccia come ha fatto il Centro sociale Rialto che, dopo essere stato sgomberato, ha occupato i locali. Ma non è questo lo stile delle associazioni di volontariato.
A pesare fortemente su questa situazione è anche l’atteggiamento della Corte dei conti, che sembra travalicare i propri compiti e tenere sotto scacco amministratori e dirigenti del Comune. Per questo una cinquantina di associazioni hanno aderito all’iniziativa promossa da OPA (Osservatorio pubblica amministrazione), CILD (Centro iniziativa legalità democratica), Coordinamento periferie di Roma, Forum terzo settore del Lazio e CESV (Centro di servizio per il volontariato del Lazio). Il 9 marzo scorso hanno consegnato alla Corte dei conti regionale un’istanza, per chiedere il deferimento alla commissione disciplinare del vice procuratore dottor Guido Patti.
Il problema, come si legge nel testo dell’istanza, è che il vice procuratore ha mosso azioni giudiziarie massicce nei confronti dei dirigenti del dipartimento patrimonio di Roma Capitale, che si erano occupati delle concessioni. Fino ad ora sono stati notificati ai dirigenti – tutte donne – 200 inviti a dedurre (avvisi di garanzia) e 132 atti di citazione, ma secondo il personale della procura ne sono stati confezionati 650, “con il metodo del copia e incolla”. I provvedimenti – che richiedono cifre iperboliche per “danno erariale” – non hanno colpito tutti nello stesso modo, perché “nel corso delle istruttorie si è proceduto a una distinzione tra i dirigenti che hanno accettato i suggerimenti del dott. Patti (e così non hanno ricevuto addebiti e/o atti di citazione) ed i dirigenti che hanno tentato di rappresentare le difficoltà operative del dipartimento con la speranza di una collaborazione fruttuosa”.
Inoltre l’istanza elenca una serie di fatti e di pronunciamenti, attraverso i quali la Corte dei conti avrebbe interferito anche nell’attività di Roma Capitale in vari modi, condizionando l’operato dei dirigenti e impedendo all’Amministrazione di esercitare la propria autonomia e ai politici di esercitare liberamente il mandato conferito dagli elettori.
Nessuno ha preso le difese dei dirigenti, neanche i sindacati, e l’amministrazione non ha reagito, di fatto abdicando al proprio ruolo. Per questo le associazioni hanno scritto anche una lettera ai dirigenti capitolini (“Non apprezziamo una dirigenza burocratica, impaurita e priva del senso delle istituzioni, che abdica al dovere-potere di operare scelte”) e una ai politici (“Ci aspettiamo che le istituzioni elettive si riprendano la loro smarrita capacità decisionale e si assumano le responsabilità, che trova le sue radici democratiche sul mandato che hanno ricevuto dagli elettori”).
Le associazioni propongono anche che il consiglio comunale adotti una delibera, in cui si riconosca che un’associazione che offre servizi alle persone fragili, produce cultura o si impegna per i beni comuni, non può essere trattata come un privato che cura i propri pur legittimi interessi. Ma soprattutto chiedono che l’amministrazione si impegni a tenere conto del “valore sociale” prodotto dalle organizzazioni dei cittadini: “Nel caso del patrimonio pubblico concesso dall’amministrazione, infatti, il corrispettivo monetario costituisce solo una parte di un più ampio corrispettivo, erogato attraverso le attività di servizi specialistici culturali, educativi e sociali ad integrazione di quelli erogati direttamente dall’amministrazione capitolina e tale attività costituisce interesse pubblico generale”.
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