Del decreto emesso dal Tar del Lazio, col quale si sospende l’espianto degli ulivi nel cantiere del gasdotto csorprende il passaggio in cui i giudici amministrativi parlano di “molteplici interessi pubblici coinvolti”.
I motivi per sorprendersi, in realtà, sono due. Prima degli “interessi pubblici” sussiste il fatto politicamente rilevante che, ed è la prima volta, la “marcia” verso la costruzione dell’impianto destinato a portare il gas dell’Azerbaidijan in Italia, attraverso l’approdo nel Salento, in provincia di Lecce, subisce una seria battuta d’arresto nelle aule di giustizia.
Ancora ieri, la Corte costituzionale, accogliendo il ricorso del governo e bocciando la legge regionale della Puglia con la quale si vieta di costruire sui terreni degli ulivi colpiti dal batterio xylella, di fatto evitava che la stessa norma potesse essere utilizzata contro la creazione del gasdotto. Questo per capire un po’ il clima in cui siamo immersi: lo scontro tra governo e Regione Puglia è il riflesso del lungo duello nel Pd tra Matteo Renzi e il governatore Michele Emiliano. Duello iniziato quando il primo era presidente del Consiglio e ora spostatosi nell’arena del voto per la segreteria, attraverso il “tubo” Tap.
Tornando agli “interessi pubblici coinvolti”, è evidente i giudici amministrativi abbiano contemplato la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, interessi che riteniamo una cosa sola con la tutela della salute pubblica. Ciò ha del sorprendente, perché, finora, nella vicenda Tap, fuori dall’area della legittima protesta di chi è contrario alla costruzione del gasdotto, in nessun caso si era detto e scritto che fosse necessario valutare anche quegli interessi e “soddisfarli” (nel decreto si usa questo verbo). Vedremo il 19 aprile, quando il Tar del Lazio discuterà nel merito l’istanza di sospensione promossa dalla Regione Puglia, quanto peseranno davvero quegli interessi.
Perché abbiam tirato in ballo la salute pubblica? Qualcuno ha scritto che chi difende gli ulivi salentini dovrebbe battersi contro il vero inquinamento, quello dell’Ilva per esempio. Questo giudizio lascia perplessi ed ha un vecchio, ormai inacidito, retrogusto coloniale. Dovrebbe esser chiaro da decenni che l’espianto di alberi, e al sud di ulivi in particolare, annuncia – ha sempre annunciato – la morte di un territorio: dalla memoria alla coscienza civile, dalle radici (reali e figurate) alla salubrità di aria acqua e suolo, all’idea stessa di bene comune e democrazia, fino alle morti reale per tumori, mesoteliomi e via inquinando. Gli ulivi non sono solo alberi.
Lo sapevano alla perfezione gli ateniesi, nella cui Costituzione Aristotele citava la condanna a morte per chi li sradicava o abbatteva (sarà un caso?). Lo sanno sulla loro pelle i cittadini di Taranto che nel 1960 videro spianati 40 mila ulivi per far posto all’Italsider oggi Ilva. Chi invita i “no Tap” a rivolgere la loro lotta altrove finge di non sapere, ma in molti casi sa benissimo, che opporsi all’espianto di ulivi significa evitare una futura Ilva o, se preferite, una futura Cerano (la centrale a carbone di Brindisi) a quei pezzi di sud che è possibile salvare dallo scempio coloniale e destinare a miglior sorte: a futura memoria direbbe Leonardo Sciascia perché lì, nel Salento, la memoria ha ancora un futuro. Del doman non v’è certezza ambientale, quasi per eterogenesi dei fini, quando un’impresa economica, anche la meno impattante dal punto di vista ambientale, arriva su un territorio.
Da ieri il movimento “no Tap”, con la sua idea di difesa della terra che qualcuno aveva considerato, a esser buoni, retrograda ha visto riconosciuti, nero su bianco, i principi per i quali si batte. Ora è importante proseguire nella battaglia, a patto però di bandire la violenza, purtroppo affiorata in alcuni casi di protesta, e isolarla. Perché l’occasione è unica e non va sciupata. A Taranto, per esempio, pur considerando sacrosanto il diritto alla salute, diverse sentenze di diverse magistrature hanno ribadito che l’Ilva è lì e non si tocca, in nome del diritto al lavoro. Ciò ha poi permesso al governo di creare intorno all’acciaieria una bolla di immunità e di impunità senza precedenti nei paesi occidentali.
Il Tar del Lazio ha riconosciuto che in ballo non c’è solo l’onnivora frenesia di consumo energetico di un’Italia alle pezze alimentata, pensate un po’ che paradosso, da una politica industriale vecchia e mai aggiornata alle vere esigenze di equilibrio tra lavoro, salute e ambiente. Una politica, tra l’altro, che avrebbe dovuto alzare da decenni un muro anche contro qualsiasi tipo di infiltrazione criminale nell’economia reale. Il Tar del Lazio ha riconosciuto che c’è altro da valutare sul piatto della bilancia della giustizia. E questo altro passa per il bene che rappresentano gli ulivi, simbolicamente e non solo. Passa per Aristotele e per l’antico aneddoto del mugnaio di Potsdam. Con la certezza che, a Berlino, un giudice ancora c’è.
Ora sappiamo che la difesa dei beni comuni e della terra non è retrograda
La sentenza del Tar ha riconosciuto i principi per cui si batte il movimento No Tap
Fulvio Colucci Modifica articolo
6 Aprile 2017 - 16.40
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