La verità sulla morte di Pasolini passa da Johnny lo Zingaro: ecco i perché
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La verità sulla morte di Pasolini passa da Johnny lo Zingaro: ecco i perché

Durante il processo sono emersi una serie di indizi clamorosamente sottovalutati: a cominciare dal suo anello sul luogo del delitto

Omaggio a Pasolini, di Valentino Bonacquisti
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David Grieco Modifica articolo

30 Giugno 2017 - 20.54


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Finalmente, a quasi 42 anni di distanza, la verità sulla morte di Pier Paolo Pasolini possiamo toccarla con mano. Se avete un attimo di pazienza, proverò a raccontarvi e a spiegarvi perché oggi sento di poter scrivere una pagina incoraggiante su un momento sporco, anzi sporchissimo, ma fondamentale della storia del nostro paese.
Cominciamo dal fatto che Johnny lo Zingaro, al secolo Giuseppe Mastini, condannato all’ergastolo per numerosi omicidi, è evaso alle 19,30 di oggi, 30 giugno del 2017. O meglio, non è evaso. Più semplicemente, non ha fatto ritorno in carcere perché godeva del regime di semilibertà.
Come è possibile che fosse in semilibertà? Come è possibile che abbia deciso di evadere?
Per non meglio precisati motivi, Johnny lo Zingaro veniva considerato un collaboratore di giustizia. Ma nessuno ha mai voluto spiegare in cosa consistesse questa sua collaborazione con la giustizia.
Johnny lo Zingaro è stato spesso accostato alla morte di Pier Paolo Pasolini. Per elementi probatori a prima vista schiaccianti.
Un anello che gli apparteneva venne trovato all’Idroscalo sul luogo del delitto, ma Pino Pelosi (l’assassino ufficiale quanto improbabile di Pier Paolo Pasolini) lo scagionò e continua a scagionarlo dicendo che era suo.
Fu trovato anche un plantare, con le iniziali G. M., nell’auto di Pasolini, ma anche questo enorme dettaglio fu per così dire trascurato. Eppure, Johnny lo Zingaro era notoriamente zoppo, in conseguenza di un conflitto a fuoco con la polizia quando il ragazzo aveva, udite udite, appena 11 anni.
All’epoca del Delitto Pasolini ne aveva soltanto 15 e mezzo, ma era stato già definito da periti psichiatrici un “assassino nato”.
Andiamo avanti. Vincenzo Panzironi, il proprietario del ristorante Biondo Tevere dove Pasolini fu visto per l’ultima volta insieme a Pino Pelosi poco prima della mezzanotte del 1 novembre del 1975, fornì il 2 novembre alla polizia una descrizione del ragazzo molto più somigliante a Johnny lo Zingaro che a Pino Pelosi.
Infine, nella notte tra il primo e il 2 Novembre, due poliziotti si recarono a casa di Pasolini per dire a sua cugina Graziella Chiarcossi che avevano trovato l’auto di Pasolini abbandonata al Tiburtino, forse rubata. Per combinazione, proprio al Tiburtino, nei pressi dell’auto, si trovava la roulotte dove abitava Johnny lo Zingaro, figlio di un giostraio di etnia sinti.
Senza contare che quell’auto, se si trovava al Tiburtino non poteva essere contemporaneamente a quasi 60 km di distanza a Ostia, dove era stato ufficialmente fermato Pino Pelosi che pur non avendo la patente andava contromano sul Lungomare a velocità supersonica (160 km orari, se non ricordo male).
Johnny lo Zingaro dunque è fuggito. Pur potendo entrare e uscire dal carcere quasi a suo piacimento, ha tagliato la corda.
È scappato o qualcuno ha deciso di farlo sparire, vivo o morto fa poca differenza?
Ora vi dirò perché tutte le ipotesi sono possibili.
Due mesi fa, è successo qualcosa che io e altre due persone, Silvio Parrello e l’avvocato Stefano Maccioni, potevamo soltanto sognare.
Ma prima occorre ricordare chi è Silvio Parrello e chi è Stefano Maccioni.
Silvio Parrello, soprannominato Er Pecetto, è un signore del 1943 che conobbe Pasolini appena arrivato a Roma nel 1950, nella borgata di Donna Olimpia. A quel tempo, Silvio Parrello aveva appena 7 anni e con altri ragazzi e ragazzini di borgata passava le sue giornate a giocare a pallone per la strada e a fare il bagno nel Tevere con Pier Paolo Pasolini.
Parrello era talmente familiare a Pasolini da indurre lo scrittore a dare il suo soprannome, Er Pecetto, ad uno dei personaggi del suo romanzo “Ragazzi di vita”, scritto proprio in quei giorni di miseria e libertà nella borgata di Donna Olimpia. Tanti anni dopo, nel 2011, Silvio Parrello evocò un personaggio che sarebbe poi diventato il personaggio chiave del Caso Pasolini, nonché del libro e del film “La Macchinazione” che in mezzo a una selva di ostacoli la produttrice Marina Marzotto ed io siamo riusciti a realizzare.
Antonio Pinna era anche lui un ragazzino che viveva nelle strade di Donna Olimpia. Stava in classe con Silvio Parrello, ma era di un anno più grande. Nell’ultimo anno di vita di Pier Paolo Pasolini, il 1975, Antonio Pinna andava spesso a trovare Silvio Parrello portandogli i saluti di Pier Paolo Pasolini. Parrello si stupiva non poco perché Pasolini non lo vedeva più da tanto tempo.
Pinna gli disse che lui invece lo vedeva tutti i giorni, perché Pasolini voleva da lui informazioni riservate. “Che genere d’informazioni?”, gli chiese un giorno Parrello. “Per esempio, adesso Paolo mi ha chiesto chi sono gli elementi della criminalità organizzata che si sono infiltrati nelle Brigate Rosse”, gli rispose Pinna.
Antonio Pinna era un uomo molto informato perché faceva parte della malavita organizzata e aveva fama di essere il miglior pilota in circolazione.
Antonio Pinna sparì misteriosamente il 13 febbraio del 1976, mentre era in corso il primo processo a Pino Pelosi presso il Tribunale dei Minori. Quel giorno, due amici di Pelosi, i fratelli Borsellino, sarebbero dovuti comparire in aula perché avevano ingenuamente raccontato a un agente infiltrato in carcere di aver partecipato all’uccisione di Pier Paolo Pasolini. I fratelli Borsellino in tribunale non ci arrivarono mai. Vennero fermati dalle guardie carcerarie con una dichiarazione in cui i ragazzi sostenevano di essersi vantati di un delitto non commesso, di averla sparata grossa soltanto per darsi delle arie.
Ma quel 13 febbraio del 1975, Antonio Pinna uscì per l’ultima volta di casa quando lo vennero a prendere due signori molto distinti. La sua auto, un’Alfa GT praticamente identica a quella di Pasolini, venne ritrovata soltanto mesi dopo abbandonata nei pressi dell’aeroporto di Fiumicino. Qualche anno dopo, nel 1980, l’anagrafe di Roma produsse un certificato di morte presunta e Antonio Pinna fu cancellato per sempre dalla faccia della Terra.
Eppure, un figlio illegittimo di Antonio Pinna, Massimo Boscato, arrivò a Roma nel 2007 a cercare suo padre e fece due scoperte piuttosto sensazionali.
Massimo Boscato scoprì un verbale della polizia in cui si diceva che Antonio Pinna era stato fermato nel 1979 con la patente scaduta. E scoprì anche, grazie a un amico carabiniere, che presso il Ministero degli Interni esisteva un grosso fascicolo a nome di suo padre. Un fascicolo secretato.
Nel frattempo, però, Silvio Parrello aveva fatto una scoperta ancora più importante. Aveva scoperto che l’auto che aveva ucciso Pier Paolo Pasolini passando più volte sul suo corpo non era l’auto dello scrittore. Era l’auto, un’Alfa GT quasi identica, di proprietà di Antonio Pinna. Glielo rivelarono due carrozzieri, che se la videro arrivare due o tre giorni dopo il delitto. Incidentata, con la coppa dell’olio rotta, sporca del sangue e dei capelli della vittima sotto la scocca. Quella vittima non poteva che essere Pier Paolo Pasolini. Infatti, il primo carrozziere si rifiutò di ripararla. Il secondo acconsentì, ma poi la passò a un collega.
Questi due carrozzieri hanno dichiarato tutto questo anche alla popolare trasmissione “Chi l’ha visto?”, sempre grazie a Silvio Parrello.
Perché gli assassini hanno voluto usare un’altra auto identica anziché quella di Pier Paolo Pasolini? Perché l’Alfa GT è un’auto molto bassa, e il corpo sdraiato di Pasolini, più alto, avrebbe sicuramente finito per rompere la coppa dell’olio. Dopo la rottura della coppa dell’olio, quell’auto non sarebbe andata lontano. E invece, come sappiamo, l’auto di Pasolini quella notte deve aver viaggiato parecchio.
Questo lo scoprì già pochi giorni dopo il delitto il professor Faustino Durante, che feci venire all’Idroscalo quella mattina. Faustino Durante fu il solo medico legale che si scomodò per andare sul luogo del delitto e scrisse nella sua perizia che gli risultava strano che sotto l’auto di Pasolini non ci fosse traccia evidente di quel carnaio. Ma questo lo disse e addirittura lo dimostrò anche Sergio Citti, sceneggiatore e amico fraterno di Pier Paolo Pasolini.
Qualche giorno dopo il delitto, Sergio Citti tentò una ricostruzione filmata dell’accaduto e trovò sullo sterrato dell’Idroscalo una grossa chiazza d’olio di macchina. Olio giallo, non nero. Olio proveniente da lattine aperte e svuotate sul posto o, assai più probabilmente, da una coppa dell’olio rotta. E la coppa dell’olio dell’auto che apparteneva a Pier Paolo Pasolini, se vi foste distratti nella lunga e faticosa lettura, risultava intonsa.
Ora parliamo di Stefano Maccioni. Nel 2010, Stefano Maccioni è un giovane avvocato che insieme a una giovane criminologa, Simona Ruffini, sta cercando un caso remoto rimasto irrisolto che potrebbe finalmente trovare risposte grazie all’esame del Dna (che non esisteva all’epoca in cui avvenne) sui reperti che si trovavano sul luogo del delitto.
Il Caso Pasolini risponde perfettamente a questi requisiti. Maccioni e Ruffini chiedono la riapertura delle indagini.
Dopo molte difficoltà, gli esami del Dna sui reperti vengono finalmente fatti a cavallo tra il 2014 e il 2015. Ne risulta la presenza sul luogo del delitto di altre persone oltre Pasolini e Pelosi.
Viene fatto qualche esame incrociato, pochi per la verità, e tra questi anche quello del Dna di Johnny lo Zingaro, alias Giuseppe Mastini. Risulta negativo. Ma l’esame viene fatto su un mozzicone di sigaretta che Johnny lo Zingaro avrebbe fumato in carcere anni addietro.
Tutto si risolve con una comunicazione della polizia penitenziaria che dice soltanto “non è lui”. E la Procura di Roma archivia nuovamente il caso.
Ora, grazie all’avvocato Maccioni, dal 25 ottobre scorso, presso la stessa Procura di Roma, pende una richiesta di riapertura del processo, supportata da un’infinità di elementi, spesso clamorosi, che potrete trovare, se vi interessa, in tanti articoli che ho scritto per Globalist.
E veniamo alla novità più eclatante. Scriverò un articolo a parte, che apparirà insieme a questo, per non affaticare i lettori.
Mi limiterò a darvi la notizia nuda e cruda: Antonio Pinna è vivo e vegeto e due mesi fa si è messo in contatto con noi. Ha 75 anni, vive sotto un altro nome in un altro continente, ha visto il film “La Macchinazione” e ha confermato che lui si trovava all’Idroscalo nella notte tra il primo e il 2 novembre 1975, che l’auto che ha ucciso Pasolini era effettivamente la sua, ma ha qualcosa di importante, molto importante da obiettare. (1 continua)

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