Se l'è andata a cercare: colpevolizzare le donne vittime di violenza è connivenza con gli stupratori
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Se l'è andata a cercare: colpevolizzare le donne vittime di violenza è connivenza con gli stupratori

Quale è la differenza tra chi stupra e chi crede che lo stupratore abbia ragione perché la donna era vestita in un certo modo o si è comportata in un certo modo? 

Colpevolizzare le donne vittime di violenza è connivenza con gli stupratori
Colpevolizzare le donne vittime di violenza è connivenza con gli stupratori
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Claudia Sarritzu Modifica articolo

19 Settembre 2017 - 08.02


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La cosa più insopportabile è la sottile ipocrisia di quelli che dicono: condanno la violenza ma… Ed è proprio in quel ma che si nasconde a tutti gli effetti l’approvazione della violenza e l’accusa infamante che chi l’ha subita aveva le sue colpe. Perché è un modo di ammettere che se mi trovo una donna in minigonna per strada al buio “anche io, buon padre di famiglia, sarei giustificato nel molestarla”, in quell’abbigliamento o nel trovarsi da sole in certi orari e luoghi per molti uomini e donne c’è un “invito”. Quale è dunque la differenza tra chi stupra e chi crede che lo stupratore abbia ragione? 

L’altra sera tornavo a casa da sola. C’era buio e poca gente per strada. Sapete che cosa mi sono detta tra me e me?: “Ho i pantaloni, meglio così non mi si nota”. Mi sono subito vergognata di questo pensiero, io femminista che non mi sono fatta dire neppure alle elementari da mia madre come dovessi vestirmi. Però se ho avuto questo pensiero un motivo c’è ed è esattamente l’influenza esterna del pensiero dominante (donne comprese) che dovremmo essere invisibili per non “incoraggiare” l’orco di turno. Quindi hanno ragione i talebani che le donne devono andare in giro con il burqa? E qui arriviamo all’ipocrisia numero due: odiare i musulmani fondamentalisti che fanno velare le donne e poi dimostrare che in fonto anche in Occidente c’è un “giusto” modo di vestirsi e di comportarsi per evitare molestie. 

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Poi c’è l’importanza del linguaggio che è la traduzione in simboli della nostra cultura. Ci sono parole che usiamo erroneamente quando parliamo di femminicidio o di stupro, e non intendo solo quella di “amore”.
Definire mostro, pazzo, folle, strano, l’aggressore è un modo per assolverlo e soprattutto per far credere a tutti gli uomini che chi picchia, stupra, uccide una donna è altro da loro. E invece no. L’uomo violento non è sempre stato violento e magari non lo sarà nella sua vita futura. Magari è stato un buon compagno, un buon padre, un buon fratello, un caro amico. Tutti i maschi – e vorrei spronare gli studenti quest’anno nelle scuole- devono interrogarsi, senza paura di scoprire una parte di sé che ovviamente si vuole nascondere, con queste domande: ne sarei capace anche io? Quando litigo che atteggiamento ho? Potrei alzare le mani e se sì perché? Ho mai desiderato violentare una donna?
Le ragazze invece non devono pensare che una donna che subisce abusi per anni è malata o strana. Devono chiedersi “Se mi umilia sono capace di lasciarlo?”. Non devono chiedersi: “Ma se mi vesto così oggi rischio che mi facciano del male?”
Se partiamo tutti dal presupposto che vittime e carnefici potremmo essere noi, allora vedremo la violenza da vicino e potremmo sconfiggerla. 
Il genitore della violenza è il patriarcato che coinvolge tutti gli strati della società, se lo scardiniamo vinciamo tutti.

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E dobbiamo essere anche tutti d’accordo che la prevenzione non è insegnare alle donne come non farsi stuprare, o da quali uomini tenersi a debita distanza. Ormai spopolano i corsi di difesa personale che vengono consigliati alle donne, che così si trovano a dover accettare che la violenza sia normale e che devono mettere in conto che potranno essere aggredite prima o poi. Mentre la vera strada sta nell’educare un uomo che dire “no” non significa “sì” -se si tratta di un rapporto sessuale- che quando una donna è troppo sbronza per rispondere non significa “sì”, che essere lasciati non significa che la donna è una loro proprietà e quindi deve essere punita per questo.

Dovremmo aiutare gli uomini, in primis i ragazzini, a eliminare le strutture mentali che minimizzano le violenze e tutto quello che li porta a essere violenti. Frasi come “ti amo da morire, alla follia”, “se mi lasci ti ammazzo, o mi ammazzo” sono tutti modi di dire diffusissimi (che va detto: alcune donne apprezzano sentire dai loro partner) che confermano che l’amore è associato a pensieri di morte e non di vita e libertà come dovrebbe essere. 

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Insomma va scardinato un pensiero. Ci vorranno decenni, ecco perché non c’è tempo da perdere. Cari insegnanti, aiutiamo i giovani a liberarsi di una mentalità distruttiva. 

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