“Avevo 3 anni, quando mio padre cominciò ad assumere comportamenti non da padre. Ero molto piccola, le molestie non si trasformarono mai in uno stupro. Con il candore di una bambina di 3 anni, raccontai quello che succedeva alle maestre dell’asilo, a mia mamma, a mio fratello maggiore. Lo raccontai perché capivo che c’era qualcosa di sbagliato nei suoi atteggiamenti nei miei confronti”. Anna – il nome è di fantasia, per tutelare la sua privacy – oggi di anni ne ha quasi 30. Ha scelto di raccontare la sua esperienza per spiegare perché il ddl Pillon sull’affido condiviso non può passare: “Non è possibile migliorarlo. Rappresenta un punto di vista patriarcale e chiuso. Va ritirato”.
“Sono state le maestre a chiamare mia mamma e a riportarle quello che avevo raccontato. Per lei fu uno shock, ma non esitò un attimo: terrorizzata, decise di lasciare mio padre. Ci portò via, subito. Sarò sempre grata alle forze dell’ordine che ci hanno aiutato”. Messo di fronte alle sue responsabilità, il padre negò sempre: divenne violento nei confronti della moglie e del figlio. “Era l’Italia degli anni Novanta, mia madre era una donna di origini tedesche. La loro potenza economica era decisamente sbilanciata a suo sfavore. Ma non arretrò mai, e cominciò la prima battaglia”. La prima battaglia è quella che ha portato, 4 anni dopo, alla perdita della patria potestà sulla bambina. “La nostra fortuna fu di trovare una donna pronta a difenderci, un avvocato con una lunga esperienza e particolarmente attenta ai diritti delle donne”. La testimonianza di Anna fu raccolta dagli psicologici, e il fratello dodicenne, dopo una lunga insistenza, fu ascoltato in tribunale.
In quei 4 anni di limbo, Anna e il fratello sono stati obbligati a vedere il padre tutti i weekend e a essere seguiti da uno psicologo assegnato per capire se il rapporto potesse essere recuperato. “Quei weekend per me erano pura paura, ma anche per mio fratello le cose non furono affatto semplici. Poteva vederci nei fine settimana, ma non perdeva occasione per seguirci, pedinarci. Si appostava, era stalking a tutti gli effetti”. Poi, arrivò l’ordine che sospendeva la patria potestà perché i fatti erano fondati: “Fino ai 18 anni ci fu imposto l’obbligo di incontrare uno psicologo per confermare la volontà di non vederlo. Gli era anche proibito avvicinarsi entro un certo raggio”.
E adesso? “Dopo i 18 anni avrei dovuto fare una nuova denuncia, ma al momento non l’ho fatta. Va avanti a seguirci, si fa trovare nei luoghi dove sa di trovarci. Poi ci scrive, sempre negando tutto. Ci sono anni in cui sta cheto, altri in cui si palesa più spesso. È una persona disturbata, ha rimosso tutto. Nega il reale. Ho imparato a ignorarlo, quando lo vedo. Prima reagivo, e lui intensificava la sua presenza. Oggi non lo faccio più”.
E se per arrivare alla perdita della patria potestà ci sono voluti 4 anni, alla madre di Anna per ottenere il divorzio ce ne sono voluti più di 15: “Le ha provate tutte per impedirglielo, ha addirittura fatto intestare tutto alla madre per risultare nullatenente e non doverci mantenere. Ma mia mamma è stata più forte: lei, i miei nonni, i miei zii. Ci siamo uniti moltissimo: grazie a loro ho anche tanti bellissimi ricordi della mia infanzia. Ma gli abusi mi hanno lasciato traumi tangibili: non mi piacciono le porte delle stanze chiuse a chiave, mi mettono in difficoltà le macchine come la sua, l’odore del suo deodorante per auto”.
Sono tanti i nodi che Anna individua nel ddl Pillon, “perché non posso evitare di pensare a cosa sarebbe successo a me se, allora, fosse stata in vigore una legge simile”. In primis, la mediazione: impensabile renderla obbligatoria, soprattutto nei casi di rapporti tesi quando non violenti. Inaccettabile anche, secondo Anna, la parità genitoriale sempre: “Naturalmente ci sono casi in cui la bigenitorialità è la strada migliore, e infatti viene intrapresa senza tentennamenti, come sottolineano tanti tribunali. Ma talvolta non lo è, affatto”. Anna si dice perplessa anche per l’uso dell’espressione “sindrome da alienazione parentale” che, come ribadito più volte, non ha nessun fondamento scientifico: “È esattamente quello che faceva mio padre con mia madre. Noi con lui non ci volevamo stare, lui dava la colpa alla mamma, sosteneva che ci mettesse contro di lui. Se penso che proprio per questo avrebbero potuto costringerci a stare con lui e a non vederla più, non posso che domandarmi cosa ne sarebbe stato di me. Se così fosse stato, avrebbero compromesso non solo la mia infanzia, ma anche il mio futuro”.
“Questo ddl disincentiva il diritto alla separazione. Mia mamma, straniera, in una condizione economica sfavorevole, ha tenuto duro e ci ha salvato. Ma se non avesse trovato la forza per andare avanti cosa sarebbe successo?”. (Ambra Notari)