Noi che siamo stati risparmiati dalle guerre, che hanno invece travolto i nostri nonni e i nostri padri, noi che abbiamo vissuto in un mondo più civile, noi che ci siamo governati con sistemi democratici, noi che abbiamo vissuto epoche di progresso e di benessere. Ebbene, noi che abbiamo avuto queste fortune, proviamo a metterci nei panni di un italiano nato alla fine dell’Ottocento, che non è andato a scuola ed è analfabeta o semianalfabeta, che lavora duramente la terra, se è fortunato come mezzadro, se non lo è come bracciante alla giornata, la cui vita dipende da un padrone e da un caporale che decidono se quel giorno puoi lavorare oppure no, se puoi portare a casa il pane per sfamare i tuoi figli. Prova ad essere un proletario nel vero senso della parola, nel senso che possiedi soltanto la tua prole, i tuoi figli. Prova ad essere un italiano che conosce soltanto il dialetto della terra dove è nato.
E considera la lingua nazionale cosa da ricchi e da potenti, che la usano per tenerti allo scuro, per fotterti e tenerti meglio nella condizione di schiavitù. Ebbene, se sei riuscito a immaginare tutto questo, ora prova a collocarti nel 1915 quando una patria lontana, che tu immagini incarnata nel maresciallo dei carabinieri, nel sindaco che tu noi hai eletto perché non hai diritto al voto, e anche con il prete che non sta mai dalla parte tua e che ti chiede soltanto penitenza per meritarti la felicità che non è di questo mondo ma di un altro, immagina che questa patria ti chiami alle armi a combattere una guerra contro un nemico che non conosci, di cui hai sempre ignorato l’esistenza, accanto ad altri italiani con cui non ti capisci neppure perché parlate lingue diverse. Prova a vivere la vita della trincea, con un equipaggiamento scarso e inadeguato (nei primi tempi non ti danno neppure un elmetto perché i signori che hanno voluto la guerra non avevano pensato che ti sarebbe servito), con un vitto scarso e mal cucinato. L’unica cosa che abbonda la grappa e che quando ti viene somministrata preannuncia la cosa più terribile: l’assalto, perché devi uscire dalla trincea praticamente ubriaco per andarti a buttare in bocca a una mitragliatrice che sputa pallottole a raffica. Immagina di avere un comandante supremo che ha teorizzato come neutralizzare una mitragliatrice: si calcoli il numero dei soldati che la suddetta mitragliatrice può abbattere e mandargli incontro un numero superiore di soldati, per cui alcuni possano arrivare incolumi a neutralizzare la mitragliatrice stessa.
Prova a immaginare di non aver neppure il diritto ad avere paura, perché dietro di te c’è un carabiniere pronto a spararti alle spalle, e prova ad immaginare che cosa può succedere alla tua compagnia se non ha combattuto come i signori ufficiali (quelli superiori, perché il tenente che sta con te è il primo uscire dalla trincea e a rischiare la vita) si aspettavano: arriva un freddo generale, con l’aria austera e persino elegante nella sua divisa, che vi mette in fila e incomincia a contare: sei… sette…. otto… nove…. dieci… fuori… è la cosiddetta decimazione: uno ogni dieci viene accusato di vigliaccheria e fucilato, per cui alla famiglia invece del telegramma con l’encomio per il caduto per la patria, c’è l’ignominia per il vigliacco. E questo per prendere un montarozzo che viene riperso qualche giorno dopo e poi ripreso e poi riperso, fino al grande disastro, sì il disastro di Caporetto con un comandante in capo, quel Cadorna che aveva ordinato le fucilazioni e che considerava i soldato soltanto come carne da macello, a godersi il soggiorno alle terme insieme alla moglie e un altro generale, quel Badoglio che ricorrerà spesso nella storia d’Italia, che non sparò un colpo di cannone contro il nemico che avanzò di diversi chilometri nel suolo patrio. E poi l’umiliazione inflitta ai fanti che avevano combattuto, che erano morti e che erano finiti in prigionia, con l’accusa di vigliaccheria di essere fuggiti davanti al nemico.
“Grande guerra, piccoli generali” è il titolo di uno dei tanti libri che si sono scritti su Caporetto: un titolo che fotografa bene la situazione, tanto che il ribaltamento della situazione e del fronte si dovrà proprio alla sostituzione di Cadorna con Armando Diaz, che capì subito che quei soldati non erano carne da macello ma uomini da trattare con umanità a cui si dovevano dare anche delle motivazioni forti che non erano soltanto basate sul desiderio di riportare la pelle a casa. “Tenete in mente che strappando il suolo al nemico, ognuno di voi protegge la sua terra, la sua casa, la sua famiglia” disse Diaz a quei fanti, che in quelle parole trovarono finalmente una motivazione personale a quella carneficina. E fu la resistenza sul Piave e Vittorio Veneto, il nemico fu ricacciato dal suolo patrio e Trento e Trieste che finalmente si unirono all’Italia.
Provate ora a immaginare il bilancio di quei tre anni e mezzo di guerra, provate a immaginare un cimitero con seicentocinquantamila tombe, provate a immaginare seicentomila prigionieri, di cui centomila non faranno mai più ritorno a casa, e poi il milione di mutilati, ciechi, senza le gambe, senza le braccia. Provate a immaginare tutto questo e poi vi convincerete che questa vittoria va celebrata e ricordata per quei nostri nonni che lì sono rimasti e per quelli che sono tornati feriti nella carne e nell’anima, meritandosi il titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto.
Finisco appropriandomi delle parole di Primo Levi: meditate che questo è stato. E aggiungo: non finite mai di raccontarlo a quelli che verranno, perché duri la memoria.