Giornata della memoria. I racconti dei sopravvissuti: "Avevamo dimenticato la gioia"
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Giornata della memoria. I racconti dei sopravvissuti: "Avevamo dimenticato la gioia"

Un documento coraggioso che restituisce una umanità piena di dignità e speranza che sì è opposta al processo di disumanizzazione e al proprio destino "dominandolo dall’interno"

Detenuti in un lager
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27 Gennaio 2019 - 09.58


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Che cosa ha consentito ad alcuni internati nei campi di concentramento di resistere e soprattutto, di non smarrire dignità e speranza? Come è potuto accadere che qualcuno, sia riuscito “persino” a conservare un legame di senso con la vita, nonostante tutto? Per il giorno dedicato alla memoria della Shoah, tra gli innumerevoli testi da leggere, vogliamo segnalarne uno, simbolico, che rappresenta non solo un’incursione in una delle pagine più dolorose della nostra storia, ma un vero e proprio viaggio “alla ricerca dell’essenza dell’umanità”, orientato a comprendere l’esperienza del deportato e a sviluppare “una fenomenologia dell’internamento che, per molti versi, converge con altre analisi psicologiche, effettuate sui detenuti di diversi regimi”. Una pubblicazione che propone al lettore non solo il Lager “visto dall’interno” da chi ne ha avuto esperienza diretta, né si ferma al racconto delle efferatezze ivi compiute, che non si accontenta di “descrivere e spiegare i modi in cui progressivamente le persone, in quelle condizioni estreme, si adattavano al contesto, perdevano gradualmente la loro umanità e, infine, soccombevano al destino”. Ma offre una riflessione quasi coraggiosa, esplorando i motivi per cui, alcuni deportati, riuscirono ad opporsi al “processo di disumanizzazione che in tali situazioni apparirebbe, se non proprio inevitabile, quanto meno prevedibile e ampiamente giustificato”.

“L’uomo in cerca di senso” (FrancoAngeli, 2017 – Presentazione di Daniele Bruzzone), è il racconto che Viktor Frank, fondatore della logoterapia e analisi esistenziale, ha pubblicato una volta rientrato a Vienna nell’aprile del 1945, dopo due anni e mezzo di prigionia. Lo psichiatra fu infatti deportato nel settembre del 1942 a Theresienstadt, in Boemia (sarebbero seguiti Auschwitz, in Polonia, poi Kaufering III e Turkheim, due filiali di Dachau in Baviera). La parte iniziale è dedicata all’arrivo nel Lager, alla vita e a quello che viene definito lo “choc di accettazione”. Il prigioniero subisce in modo tormentoso vari turbamenti psichici e presto comincia a ucciderli nel suo animo, osserva Frank: “vi è innanzitutto la sconfinata nostalgia per la gente di casa. Una nostalgia che talvolta si fa così acuta da suscitare un solo desiderio: morire. Vi è poi il disgusto per tutte le brutture e lo scherno che le accompagna, che fa più male delle percosse stesse.

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Le pagine, seguono poi un altro percorso, ci conducono alla riscoperta dell’interiorità, della capacità di trascendere, di resistere, di contemplare, di tendere al punto più alto al quale l’essere umano può innalzarsi. “Tutto ciò che accade all’anima dell’uomo, ciò che il Lager apparentemente ‘fa’ di lui come uomo, è il frutto d’una decisione interna” si legge nel testo. In sostanza, secondo lo psichiatra, ogni persona, anche se condizionata da gravissime circostanze esterne, anche le più terribili: “può in qualche modo decidere che cosa sarà di lui spiritualmente”. La libertà spirituale di un individuo “quel bene che nessuno può sottrargli finché non esala l’ultimo respiro” fa sì ch’egli trovi il modo “di plasmare coerentemente la propria vita”.Difficile entrare nel merito, forse anche comprendere, conoscendo il racconto storico di quanto è accaduto, ma Viktor Frankl induce il lettore a non pensare che le sue, siano considerazioni teoriche o irreali. “Certo solo pochi e rari uomini sono in grado di raggiungere, grazie alla loro eccezionale maturità, un tale livello etico”, ma, ribadisce, “se non vi fosse che stato un uomo solo, basterebbe la testimonianza di quest’uno, per asserire che l’uomo può essere nel suo intimo, più forte del destino che gli viene imposto”.

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La vita nel Lager “mise senza dubbio a nudo un abisso che giunge fino all’intimo”, e in questa profondità, appare l’umano per ciò che realmente è, “un’amalgama” di bene e di male: “a noi premeva di rintracciare il senso dell’esistenza come un tutto che comprende anche la morte e non garantisce solo il senso della ‘vita’ ma anche il senso della sofferenza e della morte: per questo abbiamo lottato”. Frankl scampò a quella morte, ma perse le persone più care. Rientrato a Vienna dettò in soli sette giorni le sue memorie. Il testo è stato tradotto in quarantadue lingue, ha venduto più di dieci milioni di copie. “In un primo tempo non volevo pubblicare questo libro con il mio nome ma solo con il mio numero – confiderà. – Quando la stesura era già pronta, mi convinsi che una pubblicazione anonima avrebbe perso in parte il suo valore, che sarebbe invece stato aumentato dal coraggio di una confessione”. 

“Nel Lager si credeva di aver già toccato il fondo dell’esistenza ma al ritorno abbiamo dovuto constatare che non è così, che ciò  a cui si teneva è andato perduto, che nel momento in cui siamo tornati a essere uomini possiamo piombare in una sofferenza ancora più grave, più abissale”. Descrivendo il “prigioniero liberato” Victor Frankl aggiunge: “avevamo letteralmente dimenticato la gioia e dovevamo prima reimpararla”. 

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Un documento forte che restituisce il volto di una umanità che anche nell’orrore più impensabile, è riuscita a opporsi al proprio destino “dominandolo dall’interno”. Sono righe che parlano anche di noi, di quello che siamo e quello che possiamo scegliere di essere. (Slup)

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