Liliana Segre: noi donne nei lager come rane d'inverno
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Liliana Segre: noi donne nei lager come rane d'inverno

Nella giornata della memoria una intervista a Liliana Segre che racconta le condizioni di vita delle donne ad Auschwitz-Birkenau

Liliana Segre
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27 Gennaio 2019 - 09.29


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di Daniela Padoan
L’obiettivo dei nazisti era cancellare dal mondo gli ebrei, uomini o donne che fossero, e tutti, nell’indicibile orrore dello sterminio, seguirono lo stesso percorso di fame, sfruttamento e morte. Tuttavia riflettere sulla peculiarità delle sofferenze e delle sopraffazioni patite da uomini e donne può aiutarci a superare il neutro della testimonianza e a comprendere le differenti traiettorie esistenziali di individui segnati da una diversa educazione, da diversi ruoli sociali, da diversi modi di percepire e affrontare la separazione, l’umiliazione, la perdita. “Nel Lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa” dice Liliana Segre, deportata nel Lager femminile di Auschwitz-Birkenau all’età di tredici anni. “Qualunque delinquente comune aveva diritto di vita e di morte su noi donne ebree, generatrici di un popolo odioso. E tuttavia noi di questo, allora, non eravamo consapevoli. Sapevamo la sopraffazione, la vergogna, la brutale umiliazione che ci spogliava della nostra umanità, e con essa anche della nostra femminilità.”
Mi ha sempre colpito l’immagine usata da Primo Levi quando paragona le donne di Auschwitz a rane d’inverno.
Sì, il secondo passo del celebre comando con cui Primo Levi si rivolge ai lettori di Se questo è un uomo: “Considerate se questa è una donna/ senza capelli e senza nome/ Senza più forza di ricordare/ Vuoti gli occhi e freddo il grembo/ Come una rana d’inverno.” Una rana d’inverno fa pensare a una bestiolina che rabbrividisce nuda. 
Mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz’altro una cosa umiliante e terribile. L’uno è vestito, magari in divisa, con le armi; l’altro è nudo, inerme, in stato di completa debolezza. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo armato sia sottoposta a un oltraggio ancora maggiore. Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo. Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, nello stesso giorno in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono niente di quello che sta succedendo. Non c’è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude.
Una tortura che continuava nelle continue selezioni.
Quando c’erano le selezioni, le donne sfilavano per essere lasciate in vita o per essere messe a morte, sempre nude, tra i soldati in divisa. Era una persecuzione talmente grave, talmente umiliante, che per me è rimasta indimenticabile tra i milioni di cose che non ho mai dimenticato. Spesso mi capita di raccontare nelle scuole che l’anno prima, quando ero ancora una persona, ero stata operata di appendicite. Alla prima selezione che passai, tra le SS c’era un medico che mi mise un dito sulla pancia, dove avevo la cicatrice. In quel momento il mio cuore si fermò. Pensai che quello mi mandasse a morire. Invece no. Compiaciuto, spiegava ai colleghi che il chirurgo italiano era un cane, perché quella cicatrice sarebbe rimasta visibile per sempre, anche quando fossi stata una donna adulta. Non mi guardavano come una donna, ma come un capo di bestiame di cui andassero esaminati i quarti. Quando facevo la doccia con le mie compagne, all’uscita dal turno nella fabbrica di munizioni Union, dovevamo tenere con un braccio i nostri vestiti perché nessuno li rubasse e con l’altro lavarci sotto uno sgocciolio d’acqua di volta in volta bollente o ghiacciata, con un pezzetto di sapone che non bisognava perdere, altrimenti non ce ne sarebbe più stato dato un altro. Poi uscivamo nel gelo della notte, grondanti, rimettendoci addosso i nostri stracci. Durante tutto quel nostro balletto grottesco sotto la doccia, passavano i soldati. Non c’era un solo momento in cui venisse rispettata anche minimamente la dignità della persona. E credo che questo fosse ancora più doloroso per una donna. Gli uomini normalmente andavano a fare il militare, erano abituati a una certa promiscuità in cui la nudità non era sconvolgente come lo era per noi. Non ho mai sentito che avvenissero stupri o violenze di quel genere, anche se sicuramente ce ne saranno stati: le leggi di Norimberga proibivano agli ariani di accoppiarsi con le donne delle razze cosiddette inferiori. Ma era questo sprezzo a essere intollerabile, questo ridere di noi, questo punire ogni minima disobbedienza facendoci stare inginocchiate nude per delle ore. La nudità è stata una costante e io l’ho vissuta come una grande persecuzione morale, aggiunta a una situazione che era già di per sé terribile. 
Alcune superstiti raccontano della vergogna della nudità provata dalle madri davanti alle proprie figlie.
Mi è difficile rispondere a questa domanda, perché una costante della mia prigionia è stata la grande solitudine. Mia madre è morta poco dopo la mia nascita e il rapporto fondamentale che ho avuto è stato quello con mio padre. Ho visto pochi gruppi familiari, nel Lager. Sicuramente i legami familiari, se da un lato potevano costituire un grandissimo conforto, potevano trasformarsi in un dolore insostenibile, qualora all’altra, sorella, madre, o peggio ancora, figlia, succedesse qualcosa di irreparabile. Non dico che fossi contenta di essere sola, perché ho sofferto tantissimo di solitudine, però forse è stato meglio. 
La spoliazione della femminilità, la rasatura, la perdita delle mestruazioni, sono state un percorso comune a tutte le donne.

Sì, ne abbiamo risentito tutte moltissimo. Io soffrivo parecchio per le mestruazioni e ricordo che uno dei primi pensieri arrivando lì dentro era stato: e quando arriveranno le mestruazioni come farò? Non c’è stato questo problema perché, vuoi per lo spavento, vuoi per l’assoluta mancanza di cibo, vuoi perché nell’orribile zuppa mettevano, come si diceva, del bismuto, a quasi nessuna vennero più le mestruazioni, man mano che il corpo perdeva le sue forme originali e si trasformava in uno scheletro di vecchia. D’un tratto, là dove c’era il seno non c’è più niente o, in certe donne, solo un po’ di pelle cascante. Le ossa delle anche ti bucano la pelle, premendo come spunzoni sul tavolaccio dove sei costretta a dormire senza poterti voltare, incuneata nei corpi delle altre. Ti guardi le gambe e ti sembra impossibile che ti possano sorreggere. Hai la testa rasata, non hai uno specchio, non hai nulla. Sei una persona che non ha più nulla. Non possiedi altro che quei pochi stracci che ti metti addosso. Ricordo che avevo una giacca con la fodera mezzo strappata, e quella fodera l’ho usata tutta per andare in gabinetto. Anche queste cose, giorno dopo giorno, vanno tutte a scapito della tua femminilità, del tuo essere una donna che lotta per non abbrutirsi completamente. Quando non hai un fazzoletto, come fai a soffiarti il naso? Erano tutti passaggi che portavano via un pezzo di te. 
Come si poteva, in quelle condizioni, tentare di mantenere una sorta di integrità?
Ti racconto di quando mi hanno rasato i capelli. E’ una storia che racconto molto raramente. Come si vede nell’unica fotografia che è rimasta di me a tredici anni, qualche mese prima dell’arresto, avevo una massa enorme di capelli neri, ricci, ribelli, proprio come mia figlia oggi. Quando sono stata deportata ad Auschwitz erano già due mesi che non potevo lavarmi la testa, però avevo un pettine e una spazzola e cercavo di tenerli ravviati. Il giorno del nostro arrivo a Birkenau vedo le altre che venivano rasate, ed ero già pronta con la testa giù, rassegnata al fatto che anche i miei capelli sarebbero caduti lì, su quel pavimento. Passa una sorvegliante SS e dice alla prigioniera addetta alla rasatura di non tagliarmi i capelli, perché erano così belli che sarebbe stato un peccato. Mi danno un fazzoletto da legarmi in testa. Di tutto il gruppetto sceso dal treno, in quel gelo di Birkenau, eravamo rimaste trenta ragazze non mandate a morte; tutte le altre rasate, e io con i miei capelli. Non più un pettine, non più una spazzola, non più una doccia per tutto il tempo della quarantena. Avere i capelli era un segno distintivo. Tutte le kapò, tutte le prigioniere più anziane che evidentemente avevano dei meriti, tutte le politiche avevano i capelli; eravamo noi a non averli. Dopo quindici giorni mi scelgono per lavorare nella fabbrica Union, e intanto la testa mi prudeva sempre di più. Erano due o tre giorni che andavo in fabbrica, e mi grattavo mentre ero al tavolo – mi avevano appena insegnato che cosa dovevo fare con certi pezzi di munizioni – quando mi sento camminare qualcosa sulla faccia, proprio sulla guancia. Tocco, prendo in mano, è un pidocchio, quell’immondo insetto che è il pidocchio e che io non avevo mai visto nella mia vita. La prigioniera vicino a me – non era italiana, non so chi fosse – rapata, come ha visto il pidocchio ha chiamato la kapò e questa mi ha fatto subito uscire, prendendomi il numero. Non sapevo che cosa mi sarebbe successo. La mattina dopo mi hanno mandato in una baracca che si chiamava la Sauna, dove mi hanno rapato a zero. La mia testa completamente glabra era tremenda solo da toccare. Sono stata lì tutto il giorno. Non so se posso dire che sia stato il giorno più brutto della mia vita, perché ce ne sono stati tanti, ma certamente uno dei peggiori. Sono rimasta da sola per ore, nuda, aggrappata a una piccola stufa in quella stanza gelida, enorme, con una finestra rotta. Fuori c’era una tormenta di neve. Era febbraio. Non c’era da sedersi, non c’era da mangiare, nessuno che mi dicesse una parola. Ero veramente a un punto di non ritorno psichico quando è entrata un’altra ragazza, anche lei nella mia stessa situazione, appena rapata, in attesa che le disinfestassero i vestiti. Poteva essere cecoslovacca, o polacca. Certamente non ci capivamo, perché nessuna delle due aveva ancora imparato il tedesco. Poteva avere sedici anni. E volevamo così tanto comunicare, che ci facevamo dei segni, ci salutavamo, ma non sapevamo come rivolgerci l’una all’altra. Alla fine abbiamo trovato il latino. Mea familia pulchra est. Mea patria pulchra est. E poi non so cos’altro ci dicessimo: il mio cuore è triste… bello che tu sia qui… Pochissime frasi imbastite a fatica in quella specie di esperanto dei colti, che abbiamo continuato a ripetere infinite volte, perché dire la mia casa è lontana, la famiglia è bella, il mio cuore è triste, in quel contesto, nella nostra nudità – lì sì, proprio rane, mentre continuavano a passare i soldati che si sganasciavano dalle risate, che ci prendevano in giro – ci dava una grande gioia. 
Ti sei mai data una spiegazione riguardo a questo episodio? Lasciarti i capelli è stato un semplice arbitrio?
La spiegazione al momento non l’ho capita, ma poi dopo, ripensandoci, era semplice: in quello che avveniva non c’era assolutamente mai una logica, anche se all’apparenza tutto era preordinato. Nei giacigli dove dormivamo in cinque o sei, si agitavano gli insetti più schifosi. Erano sui nostri corpi, nelle cuciture dei vestiti. E nel campo passavano dei topi spaventosi, enormi, che si nutrivano di rifiuti, di morti, di tutto. C’era una sporcizia profonda, incredibile, ma noi dovevamo ricoprire questi giacigli a suon di bastonate, con un’unica coperta in ottimo stato, che doveva avere la piega fatta in un certo modo, perfettamente geometrico. Quando ho capito tutto questo, e cioè che sotto la coperta ci poteva essere qualunque schifezza, ma che sopra tutto doveva avere un aspetto perfetto, ho trovato la risposta a un sacco di cose. Entrando nella baracca, subito all’ingresso, c’era la stanzina della capo baracca, con le tendine con i volant. Dentro si intravedeva il divanoletto coperto di cinz. Poi andavi più avanti e c’era una carriola che di notte si riempiva degli escrementi, e più oltre i giacigli a tre piani, luridi, pieni di gente piagata, malata, urlante. Noi, nelle condizioni psicofisiche in cui eravamo, per andare al lavoro dovevamo marciare cantando, e passare davanti all’orchestrina delle donne violiniste sulla porta del Lager, sia che si andasse a morte, sia che si andasse a lavorare. Vedi che è un po’ tutto la stessa cosa?
Quali strategie di sopravvivenza hai adottato?
Adesso che sono nonna e che mi rivedo lì come ero allora, mi dico: quante scelte ho fatto da sola, come sono stata triste, come sono stata matura, come sono stata ingenua, come ho sfidato determinati pericoli senza neanche capirli. Nessuna mi ha suggerito come comportarmi, ho capito da sola di dover fare tutto quello che stava in me per non farmi notare, soprattutto quando non ho più avuto i capelli e sono diventata molto più uguale alle altre. Anche se avere i capelli era uno status symbol, non averli mi rendeva ancora più invisibile. D’altra parte non avrei avuto alcuna capacità di mantenere uno status symbol, perché non capivo cosa mi dicevano, ed ero così assolutamente giovane… e poi io sono una mite, non avrei mai potuto prevaricare nessuno. Una nullità sono stata sempre, e una nullità sono rimasta, però ho sempre fatto in modo di non essere nessuno. Non piangere, non ridere, non star male. Ho avuto degli ascessi, la febbre, ma non sono mai andata a dire a nessuno che stavo male, e a tredici anni non è stato facile. Qualche anno fa ho incontrato un politico che era stato anche lui ad Auschwitz e mi ha detto, ti ricordi la Vistola? La Vistola? Io non l’ho mai vista, la Vistola. A parte il fatto che noi facevamo un percorso in cui non si andava vicino al fiume, ma se anche ci fossi stata, io la Vistola non l’avrei neanche guardata, perché mi guardavo sempre i piedi. Avevo un’idea perfetta di come erano fatti i miei zoccoli, ma quello che mi circondava era talmente orribile che io non guardavo. Avevo sempre paura di non ritrovare la mia baracca quando uscivo dalla doccia, che era in un’altra baracca un po’ discosta. Andavo dietro a qualcun’altra, perché anche dopo mesi, soprattutto d’inverno, quando c’era la neve, non riconoscevo i posti. Era tutto uguale, baracche uguali, nessuno ti dava una risposta, non si poteva stare in giro. Andavo a testa bassa dietro a un’altra. Era troppo per me, capisci? Volevo mantenere il mio cervello funzionante, pensavo sempre ad altre cose, lungo la strada magari ripercorrevo tutta la trama di un film che avevo visto. Mi toglievo da lì, non so come dirti. 
Una volta hai raccontato che immaginavi di essere una stella, e che questo ti ha salvato la vita.
Sì, la stellina è stata importante. Infatti io ho sempre delle stelline, come questo ciondolo che porto al collo, perché me le regalano. Quando c’era sereno la ritrovavo nel cielo, e pensavo di essere quella stellina, di non essere lì, di essere libera. Non avevo certo dei manuali di sopravvivenza, né mai avrei pensato che ne avrei avuto bisogno, però i metodi per sopravvivere mentalmente li ho sperimentati tutti. Quando, molti anni dopo, ho letto Bettelheim, in certe cose non mi sono assolutamente riconosciuta, soprattutto nella violenza che sostiene si sviluppi in chi è passato attraverso queste esperienze. Io sono assolutamente il contrario di una persona violenta. Sono una persona di pace, non ho mai cercato vendette, non sarei mai stata capace di fare nulla di violento neanche contro il mio carnefice. Non ho sviluppato questi meccanismi di autodifesa psicologica, però tanti altri sì. Proibirmi i ricordi, soprattutto. Dopo sì, dopo i ricordi mi hanno aggredito per tutta la vita, ma appena arrivata lì dentro avevo già capito che non potevo permettermeli. La nostalgia era un’arma terribile nei nostri confronti, perché come si fa a ricordare e a sopravvivere senza impazzire? 
Parliamo invece delle donne dall’altra parte.
Non so perché, avevo sempre visto l’uomo come carnefice. Mio padre era stato arrestato da uomini. Quando ero stata in prigione, i secondini erano uomini. Solo nel carcere di Varese e di Como era stata una donna carceriera a buttarmi nella cella, ma per il resto nella mia testa erano sempre gli uomini quelli che esercitavano violenza. Invece nel Lager femminile di Birkenau, dove erano rinchiuse sessantamila donne, c’erano tutte le gerarchie femminili. Per me è stato terribile vedere che le efferatezze più straordinarie venivano compiute da donne su altre donne. Erano forse peggio degli uomini, per quello che ho visto. Non per nulla alcune SS donne sono state condannate a morte dopo la guerra. Qualcuna di loro me la ricordavo perché l’avevo vista ad Auschwitz. Eravamo le pariah del campo, noi triangoli gialli. Le altre categorie di prigioniere – delinquenti comuni, prostitute, non parliamo delle politiche – avevano qualunque diritto su di noi, potevano farci qualsiasi cosa. Le kapò erano prese tra le assassine delle carceri, tra quelle che avevano fatto le cose più atroci, in modo che potessero tranquillamente bastonare a morte una prigioniera che non obbedisse ciecamente agli ordini. Al di sopra delle kapò c’erano le SS donne, che avevano stivaloni con un puntale di ferro, ufficialmente per non consumare la suola, ma in realtà per sferrare calci più violenti. Quando tornavamo dal lavoro, vedevamo ai lati della strada principale del campo donne prigioniere scheletrite che dovevano tenere alto un masso, per ore. Questa era tra le punizioni più consuete. E se il masso cadeva, allora raddoppiava il tempo. Venivamo trattate con una violenza infinita. Ho preso tanti schiaffi e pugni senza sapere neanche perché. Passavi e ti tiravano un ceffone da voltarti la faccia. E poi, d’un tratto, queste sorveglianti tedesche si trasformavano davanti ai maschi SS in femmine che sbattevano gli occhi, sorridenti. A quei tempi l’approccio col maschio era assolutamente più sottile, ma inequivocabile, e questa doppia faccia era impressionante. Erano degli studi che non avevo la maturità, la cultura, e neanche il tempo di fare. Non sto parlando del tempo scandito dalle ore, ovviamente. Non avevo il tempo perché dovevo sopravvivere. Eppure erano dei personaggi da studiare a fondo. Nella donna devo dire che questo comportamento mi faceva molto effetto, così come mi ha fatto molto effetto sapere che ci sono state – io non le ho conosciute personalmente, ma Goti sì – anche delle kapò ebree. E Goti, che ha questa nobiltà d’animo eccezionale di cui parlavo prima, diceva, sai, anche condannare una persona è molto difficile, perché quando una invece di stare lì dentro sei mesi, un anno, come siamo state noi, ce ne sta cinque, come si deve trasformare per sopravvivere giorno dopo giorno? Per me è difficile giudicare, perché allora, in un certo senso, anche la prigioniera che rubava i vestiti all’altra, o le scarpe, avendo necessità di scambiarli con una fetta di pane, non era colpevole. E invece era estremamente colpevole. Una che in quella situazione ti ruba una cosa senza la quale non puoi sopravvivere è estremamente colpevole. Andare senza scarpe nella neve poteva significare morire di polmonite. Non lo so, non lo posso neanche immaginare, perché a me non hanno mai rubato nulla. 

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