La figlia di Borsellino, a ventisette anni dalla Strage di Via D’Amelio, si confessa a “7 – Corriere della Sera” e continua a girare l’Italia per ottenere giustizia e verità.
“Sapevo che mio padre poteva morire ogni giorno”. Nel 1992, ad appena 19 anni, si ritrovò a vivere il dramma della perdita del padre Paolo, giudice simbolo della lotta alla mafia ucciso insieme alla sua scorta.
“Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse sparato avrebbe colpito me al posto suo” […] Ogni volta che lui diceva ‘Esco’ lei si accodava, ‘Vengo anch’io’, ma quando tutto s’è consumato era la più lontana, addirittura in un altro continente.
Fiammetta Borsellino era la più piccola di casa e oggi, ormai 46enne, ricorda così la sua famiglia:
“Noi eravamo e siamo una famiglia. Quella di Paolo e Agnese Borsellino, i nostri genitori; di mia sorella Lucia e di mio fratello Manfredi, dei nostri figli. Eravamo la forza di mio padre, siamo la nostra […] In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino”.
Un clima difficile ed una consapevolezza che portavano Fiammetta Borsellino a dimostrare tutto il suo senso di protezione per il padre Paolo.
“Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me”.
La donna approfondisce il tema del rapporto col padre, definendolo differente rispetto a quello che il giufice aveva con gli altri due figli, Lucia e Manfredi.
“Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: ‘Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?’. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati […] Il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti”.