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Don Matteo Prosperini è il direttore della Caritas di Bologna da poco più di un anno: ha tratteggiato un bilancio della città partendo dall’esperienza del terremoto che nel 2012 colpì l’Emilia, esperienza che lui definisce “formativa”: “Ci siamo ritrovati tutti poveri. Essere allo stesso livello ha svelato chi eravamo davvero: i generosi lo sono stati ancora di più, gli egoisti ancora più egoisti. Le situazioni di povertà mettono a nudo e rivelano chi si è veramente. Anche oggi, dove definire la povertà è sempre più complesso, siamo messi alla prova: una situazione così delicata svela le essenze anche delle comunità religiose. Ammiro le comunità parrocchiali che, pur avendo poco, continuano a metterlo a disposizione degli altri”.
All’epoca del terremoto, Don Prosperini era vice parroco di Crevalcore e con il suo furgone portava soccorso nel raggio di chilometri. Da quell’esperienza scrisse un libro, Multivan.
“Ho capito” racconta Don Prosperini, “che la Caritas diocesana è al servizio delle parrocchie che, concretamente e quotidianamente, fanno accoglienza e vicinanza. Ci muoviamo in citta’, abbiamo rapporti con le istituzioni, proviamo a interpretare il pensiero del vescovo Zuppi. In questa terra possiamo contare su una tradizione di parrocchie feconda e attiva: ascoltano, sfamano, si mettono alla ricerca di soluzione abitative. Qui l’accoglienza esiste da sempre, non c’e’ bisogno di inventarsi nulla. Anche se, certo, l’Italia di oggi non e’ l’Italia di 20 anni fa”.
Un’accoglienza, spiega, che non fa alcuna distinzione tra italiani e stranieri: “La carità è carità, ognuno secondo le proprie disponibilità. Ci sono le parrocchie che accolgono i migranti, quelle che si occupano di anziani. Non a tutti possiamo chiedere tutto”.
“A Bologna il vero problema è la casa – afferma Prosperini -: lo è per le famiglie senza redditi fissi, per gli studenti fuori sede. Lo è anche per i migranti: anche se hanno un contratto a tempo indeterminato, una casa non gliela affittano. Perché? Perche’ sono neri. Non importa che abbiano lo status di rifugiato e un contratto di lavoro: i privati li snobbano, le agenzie hanno richieste inaffrontabili, e non possono nemmeno partecipare ai bandi per l’edilizia residenziale pubblica. Talvolta può essere davvero umiliante. Il nodo c’è e va affrontato”.
Per questo Prosperini vuole coniare un nuovo slogan, simile a ‘Prima bolognesi’, solo in apparenza conforme alla propaganda sovranista: “Una delle cose che più mi ha sorpreso negli ultimi anni è vedere quanti giovani non bolognesi hanno uno sguardo sulla città. Collaboriamo, anche noi bolognesi, alla costruzione dell’idea di città che vorremmo. Non scimmiottiamo le grandi metropoli, nemmeno nella manifestazione del dissenso. Riscopriamo cosa significa essere bolognesi nell’affrontare i temi sociali. Penso a padre Marella ai padri dehoniani”.
“La migrazione è stata strumentalizzata dalla politica, un approccio di questo genere è sbagliato: significa semplificare una realtà complessa. Non è una battaglia, non ci sono schieramenti, dobbiamo essere intelligenti”. E ricorda quando, un anno e mezzo fa, ospitò in parrocchia una dozzina di profughi: “Se ne fece carico la comunità, fu un’esperienza decisamente positiva. Certo i piccoli numeri aiutano, ma non è detto che funzioni sempre. Perché, alla base di qualsiasi ragionamento, deve esserci anche un processo culturale. Quello che manca è il coraggio di dire che l’immigrato, il migrante, il richiedente asilo è una risorsa”.
“Chi arriva ci arricchisce, da un punto di vista umano, culturale, ma anche pratico: spesso nelle comunità sono i migranti a farsi carico dei bisogni altrimenti non ottemperati da nessuno. Piuttosto dovremmo favorire i loro arrivi in sicurezza: perché i giovani italiani possono volare in Australia alla ricerca di un lavoro e i giovani ivoriani non possono venire in Italia con il medesimo obiettivo?”.
“Negli anni Novanta il povero era colui che non lavorava. Oggi anche chi ha un lavoro può essere in uno stato di povertà, di sicuro non si sente in una comfort zone. Il riferimento è a una serie di nuove fragilità: le famiglie con lavori precari, le lunghe e lontane trasferte, i nuclei monogenitoriali. La cosiddetta guerra tra poveri si alimenta così: “Oggi lo straniero è forse poco più povero di te, il ceto medio non si sente al sicuro e le sue insicurezze cresceranno sempre di più. Dobbiamo rigettare l’espressione guerra tra poveri e cominciare a parlare di grande occasione di fraternità”.
All’epoca del terremoto, Don Prosperini era vice parroco di Crevalcore e con il suo furgone portava soccorso nel raggio di chilometri. Da quell’esperienza scrisse un libro, Multivan.
“Ho capito” racconta Don Prosperini, “che la Caritas diocesana è al servizio delle parrocchie che, concretamente e quotidianamente, fanno accoglienza e vicinanza. Ci muoviamo in citta’, abbiamo rapporti con le istituzioni, proviamo a interpretare il pensiero del vescovo Zuppi. In questa terra possiamo contare su una tradizione di parrocchie feconda e attiva: ascoltano, sfamano, si mettono alla ricerca di soluzione abitative. Qui l’accoglienza esiste da sempre, non c’e’ bisogno di inventarsi nulla. Anche se, certo, l’Italia di oggi non e’ l’Italia di 20 anni fa”.
Un’accoglienza, spiega, che non fa alcuna distinzione tra italiani e stranieri: “La carità è carità, ognuno secondo le proprie disponibilità. Ci sono le parrocchie che accolgono i migranti, quelle che si occupano di anziani. Non a tutti possiamo chiedere tutto”.
“A Bologna il vero problema è la casa – afferma Prosperini -: lo è per le famiglie senza redditi fissi, per gli studenti fuori sede. Lo è anche per i migranti: anche se hanno un contratto a tempo indeterminato, una casa non gliela affittano. Perché? Perche’ sono neri. Non importa che abbiano lo status di rifugiato e un contratto di lavoro: i privati li snobbano, le agenzie hanno richieste inaffrontabili, e non possono nemmeno partecipare ai bandi per l’edilizia residenziale pubblica. Talvolta può essere davvero umiliante. Il nodo c’è e va affrontato”.
Per questo Prosperini vuole coniare un nuovo slogan, simile a ‘Prima bolognesi’, solo in apparenza conforme alla propaganda sovranista: “Una delle cose che più mi ha sorpreso negli ultimi anni è vedere quanti giovani non bolognesi hanno uno sguardo sulla città. Collaboriamo, anche noi bolognesi, alla costruzione dell’idea di città che vorremmo. Non scimmiottiamo le grandi metropoli, nemmeno nella manifestazione del dissenso. Riscopriamo cosa significa essere bolognesi nell’affrontare i temi sociali. Penso a padre Marella ai padri dehoniani”.
“La migrazione è stata strumentalizzata dalla politica, un approccio di questo genere è sbagliato: significa semplificare una realtà complessa. Non è una battaglia, non ci sono schieramenti, dobbiamo essere intelligenti”. E ricorda quando, un anno e mezzo fa, ospitò in parrocchia una dozzina di profughi: “Se ne fece carico la comunità, fu un’esperienza decisamente positiva. Certo i piccoli numeri aiutano, ma non è detto che funzioni sempre. Perché, alla base di qualsiasi ragionamento, deve esserci anche un processo culturale. Quello che manca è il coraggio di dire che l’immigrato, il migrante, il richiedente asilo è una risorsa”.
“Chi arriva ci arricchisce, da un punto di vista umano, culturale, ma anche pratico: spesso nelle comunità sono i migranti a farsi carico dei bisogni altrimenti non ottemperati da nessuno. Piuttosto dovremmo favorire i loro arrivi in sicurezza: perché i giovani italiani possono volare in Australia alla ricerca di un lavoro e i giovani ivoriani non possono venire in Italia con il medesimo obiettivo?”.
“Negli anni Novanta il povero era colui che non lavorava. Oggi anche chi ha un lavoro può essere in uno stato di povertà, di sicuro non si sente in una comfort zone. Il riferimento è a una serie di nuove fragilità: le famiglie con lavori precari, le lunghe e lontane trasferte, i nuclei monogenitoriali. La cosiddetta guerra tra poveri si alimenta così: “Oggi lo straniero è forse poco più povero di te, il ceto medio non si sente al sicuro e le sue insicurezze cresceranno sempre di più. Dobbiamo rigettare l’espressione guerra tra poveri e cominciare a parlare di grande occasione di fraternità”.