Non ho un tricolore a casa, una bandiera propriamente detta, non ce l’ho, neanche durante i Mondiali di calcio l’ho affissa. Perché non ce l’ho. Ho un fazzoletto tricolore dell’Anpi, dei partigiani.
Ci sto pensando, sapete, a questo nazionalismo, io come altri figlia orgogliosa di nostra patria è il mondo intero.
Eppure qui, attorno, cantano l’Inno, mettono le bandiere. Abito in un quartiere, a Roma, con alte percentuali di voto a sinistra, un quartiere popolare, a un passo dalle Fosse Ardeatine. Un quartiere le cui scuole, un ponte, sono dedicati a Settimia Spizzichino, deportata e sopravvissuta all’infamia nazista del Ghetto, un quartiere, un Municipio dove il 25 aprile non è solo una festa ma un dovere collettivo. Uno spartiacque, sangue del nostro sangue.
E qui cantano l’Inno. Qui mettono le bandierine che hanno gli stessi colori del mio fazzoletto dell’Anpi: verde, bianco e rosso. Il tricolore è una bandiera nata nel 1947, articolo 12 della Costituzione. Mi ha sempre amareggiato che i fascisti se ne siano appropriati, e con i fascisti i militari.
Ecco, in questi giorni di solitudine, con l’Europa che ci tratta come straccio da piedi, vorrei proprio rammentare quell’articolo dei padri costituenti. Articolo 12 di una Repubblica sola e vilipesa.
Non è sovranismo credo e spero. E’ il legame con quello che siamo, la piccola boa dell’identità fluttuante che trova posto e un po’ di conforto. Non ci leggo salviniani in testosteronica parata, meloniani eia eia. Ci leggo tutto lo smarrimento di gente che non ha più riferimenti e si lega al più semplice dei simboli per dire che siamo un Paese, che a Campobasso arrivano i malati di Bergamo, che il Sud si preoccupa per il Nord, che per una volta le parti sono invertite ma facciamo il tifo per uscire tutti vivi e in salute, per ripartire piccoli e affaticati come siamo ma forse, per una volta, uniti.
Non siam pronti alla morte, ma forse finalmente a un’altra Italia.