Miccichè, il cognome rimanda alla Sicilia, e quando racconta i suoi giorni e le sue notti in corsia, all’ospedale di Lodi, come infermiere, l’eco del dialetto lontano si schiude come i fiori d’arancio, la notte. Miccichè – mi è sfuggito il nome di battesimo nell’intervista raccolta da #radioanchio di #radio1 – è uno dei tanti che han lasciato il Sud per cercare lavoro al Nord. Sarebbe il ciclo normale delle genti se il senso non fosse sempre lo stesso e obbligato: tutti i Sud costretti a puntare ai Nord del mondo.
Miccichè, infermiere a Lodi, nella trincea contro il coronavirus, racconta il suo duro lavoro, che non può conoscere distanze di sicurezza. Anzi, racconta che le sue sono le sole mani che il malato conosce, le sue sono le sole parole che sente chi soffre per il respiro che gli manca. I suoi sono gli occhi di chi gli trasmette un messaggio di speranza. E racconta, Miccichè, di come lui faccia la spola, anche solo al telefono, tra chi soffre in corsia e dipende da lui e dai medici, e la famiglia distante, inchiodata a casa. Professionalità, dedizione, umanità. E sono stato fiero di ascoltare Miccichè, infermiere siciliano che sta dando tutto se stesso a Lodi.So che quando tutto finirà torneranno la cattiveria, la discriminazione, la stoltezza. So che torneranno, ma per un attimo mi piace pensare che col virus possano essere spazzati via anche i laidi atteggiamenti che continuano a marcare abominevole differenza tra uomini e uomini.
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