Ai tempi del Coronavirus, si dice e ridice, con una dose francamente insopportabile di retorica, che siamo tutti uguali di fronte alla pandemia. Anche nel campo industriale. Eppure, c’è chi sfugge a questo assunto: l’industria della difesa e delle produzioni militari. A rimarcarlo, e denunciarlo, sono La Rete italiana per il Disarmo, la Rete della Pace e la Campagna Sbilanciamoci.
Privilegi “armati”
E lo fanno con un documentato, puntuale, report: “Nonostante gli accordi presi con le parti sociali la sera del 25 marzo, e le dichiarazioni successive agli incontri con i sindacati in cui veniva sottolineato come il Ministro della Difesa si fosse “impegnato a diminuire la produzione nel settore militare, salvaguardando solo le attività indispensabili” oggi scopriamo invece che il Governo continua a concedere uno status privilegiato all’industria della difesa e delle produzioni militari. Infatti mentre comprensibilmente, vista l’emergenza, vengono rafforzate le decisioni di limitazione agli spostamenti personali e vengono ulteriormente ridotte le categorie economiche e produttive che possono rimanere attive, il Governo concede ai produttori di armamenti di decidere autonomamente quali produzioni tenere aperte e quali no. Lo si legge nella comunicazione inviata alla ‘Federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza’ (Aiad) a firma del Ministro della Difesa On. Lorenzo Guerini e del Ministro dello Sviluppo Economico On. Stefano Patuanelli.
Non viene quindi presa una decisione formale e obbligatoria da parte dell’Esecutivo ma le aziende a produzione militare, per tramite di Aiad, vengono invitate ‘in uno spirito di collaborazione e leale cooperazione’ a considerare ‘l’opportunità che le società e le aziende federate all’interno di Aiad, nel proseguire la propria attività, possano concentrare l’operatività sulle linee produttive ritenute maggiormente essenziali e strategiche e, di contro, rallentare per quanto possibile l’attività produttiva e commerciale con riferimento a tutto ciò che non sia ritenuto, del pari, analogamente essenziale’.
Nota bene: “considerare”, “auspicare”, insomma, mettetevi una mano sul cuore e toglietela dal portafogli…
Tutto questo andando a sottolineare come premessa che da parte del Governo Conte “sia stata ancora una volta riconosciuta la strategicità e, più in generale, l’apicale importanza, per il nostro Paese, delle imprese operanti nei suddetti settori industriali, imprese la cui attività produttiva, anche in un momento altamente critico e quello che stiamo affrontando, si è comunque deciso di tutelare appieno. Una decisa e precisa scelta di campo, che ci pare tradisca anche lo spirito dell’accordo sottoscritto con le parti sociali.
In questo senso va sottolineato come, diversamente da quanto trapelato inizialmente, queste decisioni sull’apertura o meno dei siti produttivi non dovranno essere concordate con i sindacati né a livello nazionale né a quello territoriale. Il Governo si limita infatti ad esprimere “l’auspicio che su tali decisioni e scelte possano essere debitamente coinvolte anche le diverse rappresentanze sindacali aziendali”.
Bocco totale
“La Rete italiana per il Disarmo, la Rete della Pace e la Campagna Sbilanciamoci! esplicitano il loro pieno disaccordo con questa linea di condotta e ribadiscono che in questo momento di emergenza non è possibile che all’industria militare venga – ancora una volta – riservato un trattamento speciale. Produrre armamenti non è certo strategico in questo momento e nemmeno necessario, perché sono altri i settori dell’economia che davvero garantiscono cura e servizi essenziali per il nostro Paese. Ribadiamo ancora una volta la nostra posizione che chiede l’immediato blocco in tutte le fabbriche che producono sistemi d’arma ed auspica con forza non solo lo spostamento di risorse dalla spesa militare a quella per sanità e welfare, ma anche una decisa iniziativa di riconversione dell’industria a produzione bellica verso aree produttive più utili per la vita, la salute, la sicurezza di tutti gli italiani.
Di nuovo sottolineiamo come risulti incomprensibile che sia considerato ‘strategico’ e necessario continuare a far montare un’ala ad un cacciabombardiere o un cingolo ad un carro armato, con il rischio di far contagiare i lavoratori addetti a queste attività. Riteniamo inaccettabile chiedere ai lavoratori un sacrificio così alto per una produzione che, oggi, non ha nulla di strategico ed impellente e costituisce solamente un favore all’industria bellica e al business del commercio di armamenti.”
L’economia incivile
“Si ferma l’economia civile, ma quella incivile continua a lavorare”, è la riflessione lanciata con una lettera aperta a Governo, Parlamento e sindaci da Scuola di Economia civile, Banca Etica, Pax Christi, Movimento dei Focolari, Mosaico di Pace. “Il Governo ha deciso lo stop delle industrie, tranne quelle essenziali”. Tra cui, è stabilito, “quelle dell’industria dell’aerospazio e della difesa””
Dunque “continuerà la produzione degli F-35 a Cameri (Novara)» quando col costo di un aereo, «circa 150 milioni, quanti respiratori si potrebbero acquistare?». I firmatari concordano con «quanto già denunciato da Sbilanciamoci, Rete della Pace e Rete Italiana per il Disarmo: ”Si chiede ai cittadini di vivere nell’incertezza per il proprio lavoro, ma si consente alle fabbriche di armi di continuare a lavorare senza sosta”.
“Stupisce e rammarica – commenta Giorgio Beretta dell’Osservatorio Opal di Brescia, l’osservatorio sulle armi – che il Governo non abbia invitato le aziende a partecipazione statale del gruppo Leonardo e Fincantieri a convertire immediatamente almeno una parte della propria attività per produrre quegli apparecchi medici e sanitari di cui c’è urgente bisogno e che la Protezione Civile sta cercando per mezzo mondo”. Beretta solleva anche un tema caro al movimento pacifista: la riconversione: “In Italia sono 231 le imprese produttrici di armi e munizioni, rispettivamente 107 e 124. Una sola, la Siare Engineering, produce ventilatori polmonari. Siamo fortemente dipendenti dall’estero per macchinari vitali. Ma nel 2006 la Regione Lombardia affossò definitivamente l’Agenzia regionale per la riconversione dell’industria bellica istituita nel 1994”.
“È evidente a tutti (tranne che a certi manager e a certi politici): abbiamo bisogno di caschi per la respirazione ventilata, non di caschi per i piloti degli F-35 – dichiarano sul Manifesto Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento, e Francesco Vignarca, coordinatore Rete Italiana per il Disarmo – Abbiamo bisogno di posti letto di terapia intensiva, non di posti di comando nelle caserme. L’industria bellica non è un settore essenziale e strategico: questa può essere l’occasione per un ripensamento e una riconversione necessaria (in primo luogo verso produzioni sanitarie)”. Per questo l’impegno delle reti e movimenti italiani per la Pace e il Disarmo si basa da tempo sulla richiesta di una drastica riduzione delle spese militari, a favore di quelle sociali”.
Un tema sollevato anche dal vescovo presidente di Pax Christi, Giovanni Ricchiuti: “Quanti posti letto potremmo realizzare con un solo giorno di spese militari, pari a 68 milioni? Quanti respiratori con un F-35? O con un solo casco del pilota che costa 400 mila euro?”.
La “guerra” al Covid-19, è un assunto condiviso da analisti militari e dal fronte pacifista, rivoluziona il concetto stesso di “difesa”» in un Paese che spende 5,4 miliardi l’anno in nuovi armamenti, solo per gli F-35 quest’anno circa 860 milioni.
Ventisei miliardi
Secondo le stime dell’Osservatorio Mil€x è prevista una spesa militare di oltre 26 miliardi di euro per il 2020 (cioè l’1,43% rispetto al Pil): sono fondi – secondo i dati di Rete Disarmo – che servono per le missioni all’estero ma anche per finanziare lo sviluppo e l’acquisto da parte dell’Italia di sistemi d’arma come i caccia F-35, le fregate Fremm e tutte le unità previste dalla Legge Navale, elicotteri, missili e molto altro ancora. Nel sistema sanitario nazionale invece in dieci anni c’è stato un definanziamento complessivo di 37 miliardi (dati Fondazione Gimbe) con numero di posti letto per 1.000 abitanti negli ospedali sceso al 3,2 nel 2017 (la media europea è del 5)
La vergogna-Yemen
La guerra dimenticata che infuria da cinque anni nel Golfo di Aden è stata descritta dalle Nazioni Unite come “il peggior disastro umanitario causato dall’uomo”. Solo nel 2019 ci sono stati più di 3.000 decessi diretti e 24 milioni di persone dipendono attualmente dall’aiuto umanitario. Sono invece 12.366 i morti tra la popolazione civile tra il 25 marzo 2015 e il 7 marzo di quest’anno. La crescente crisi umanitaria ha portato circa 14 milioni di persone alla fame, e in cinque anni di conflitto ha fatto aumentare di 4,7 milioni il numero di persone sui 17 totali (di cui 7 in modo acuto) che soffrono di insicurezza alimentare. È una tragedia che riguarda da vicino i Paesi dell’Unione europea, Italia inclusa. Il nostro Paese infatti non è stato un semplice spettatore: dal 2015 al 2019, per la sola e limitatissima voce “Armi e munizioni” fotografata dal servizio del commercio estero dell’Istat, l’Italia ha esportato direttamente materiale bellico per un valore pari a 201,5 milioni di euro. Lo scorso anno l’export italiano ha fatto registrare un livello più “basso” dei precedenti (23,6 milioni di euro, dati Istat) a seguito della decisione del Governo a metà 2019 di sospendere dell’invio di bombe e missili verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi.
Ma nel martoriato Yemen si continua ancora a far strage di civili anche con bombe, già vendute, “made in Italy”.
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