di Chiara Zanini
In piena emergenza Coronavirus, mentre la stampa era impegnata a coprire altre notizie, venerdì notte si è sviluppato un incendio al Palazzo di Giustizia di Milano. Risultano colpiti gli uffici del Tribunale di Sorveglianza e quelli del Gip (il giudice delle indagini preliminari). L’Ordine degli avvocati e la Camera Penale di Milano hanno insieme messo a punto delle proposte per affrontare una situazione che allo stato attuale mette in pericolo la salute dei detenuti e delle persone che lavorano in carcere. Ne abbiamo parlato con Eugenio Losco, avvocato iscritto alla stessa Camera Penale. Nelle ore in cui scriviamo si ha notizia del primo detenuto morto dopo essere risultato positivo al Covid-19.
Avvocato, la Lombardia è la regione con più istituti penitenziari e anche quella con più persone affette da Covid-19. Cosa comporta l’incendio di venerdì per la salute di chi vive e lavora in carcere?
Il problema è che l’incendio di venerdì scorso ha reso inutilizzabile il settimo piano del Palazzo di giustizia e, di conseguenza, ha determinato la chiusura dell’ufficio del Gip e del Tribunale di Sorveglianza. Si tratta dei due uffici che hanno la competenza sullo stato detentivo delle persone nelle nostre carceri. L’ufficio gip è competente in merito all’applicazione delle misure cautelari (e dunque anche di quella più grave della custodia cautelare in carcere): applicazione, sostituzione e revoca. L’ufficio di sorveglianza invece si occupa delle persone in fase di esecuzione della pena ed in particolare di quelle ristrette in carcere. È pertanto evidente che la situazione che si è venuta a creare porterà disagi enormi nei confronti delle persone detenute, con tempi maggiori sulla decisione delle istanze relative alla scarcerazione dei detenuti. Situazione peraltro che già era piuttosto critica a causa del contagio che ha inciso sia sul numero dei giudici in servizio e soprattutto sul numero del personale amministrativo presente presso le cancellerie di questi giudici, personale fondamentale per accelerare l’iter della decisione delle istanze. Di conseguenza una riduzione urgente del numero delle persone detenute sarà di difficile raggiungimento. Si tratta di una necessità dettata dal fatto che, anche per l’elevato numero delle persone presenti nelle carceri del nostro territorio, non è possibile garantire il rispetto all’interno degli istituti di quelle misure individuate per evitare la propagazione del contagio. E così infatti purtroppo il virus sta insinuandosi anche lì, sia tra i detenuti che tra il personale penitenziario e amministrativo.
Qual è il clima dopo le proteste avvenute in diversi istituti in tutta Italia? Ci sono novità rispetto alla possibilità di sentire telefonicamente o vedere i parenti?
Nelle giornate dell’8 e 9 marzo scorso si sono verificati alcuni episodi di violenza all’interno delle carceri italiane. Questo è successo anche a San Vittore e presso la casa di reclusione di Opera. Le rivolte sono scoppiate a causa delle modifiche apportate con i recenti decreti del Governo sulla possibilità per le persone detenute di effettuare colloqui con i propri familiari. Colloqui che sono stati vietati, quale misura preventiva per evitare il contagio. E anche per la situazione precaria e di sovraffollamento, incompatibile con le misure anti-contagio (basti pensare alla impossibilità del rispetto della distanza interpersonale di un metro). Per alcuni giorni i detenuti si sono trovati nell’impossibilità di effettuare i colloqui sostitutivi telefonici e con sistemi di videocomunicazione. Negli ultimi giorni tale possibilità è finalmente attiva negli istituti milanesi. Attualmente io non ho contezza di quali provvedimenti siano stati intrapresi nei confronti dei detenuti che hanno partecipato alle proteste. Ho saputo che il garante delle persone private della libertà personale per il Comune di Milano Francesco Maisto ha presentato una denuncia alla Procura in cui fa riferimento a possibili maltrattamenti ai danni dei reclusi nel carcere di Opera. E io ho parlato con alcuni familiari di detenuti presso il medesimo carcere, che mi hanno riferito di repressioni subite dai loro cari.
Oltre al noto sovraffollamento, qual è la situazione per quanto riguarda i dispositivi sanitari?
Non ho notizie precise sulla dotazione dei dispositivi sanitari all’interno del carcere. Sicuramente i detenuti non ne hanno alcuno. Quando sono andato dieci giorni fa in carcere ho visto molti agenti della polizia penitenziaria con mascherine e guanti, ma non so se si tratta di dotazioni istituzionali o personali. Comunque a me non è stato dato alcun presidio sanitario. Me li ero portati da casa.
Come avete proposto di gestire la fase di emergenza?
Il decreto “Cura Italia” è intervenuto anche in relazione alla situazione delle carceri, ma con provvedimenti del tutto inefficaci, inidonei a eliminare il sovraffollamento all’interno degli istituti penitenziari e garantire così anche in questi luoghi il rispetto delle misure anti-contagio. Sostanzialmente si è intervenuti con un lieve ritocco alla possibilità della concessione della detenzione domiciliare, eliminando nell’iter di concessione alcuni passaggi burocratici, ma al contempo prevedendo l’obbligo del braccialetto elettronico per coloro che usufruiranno di tale misura. Il risultato è che di fatto tale modifica, invece di semplificare la procedura delle concessioni della detenzione domiciliare per le pene inferiori ai 18 mesi, ha bloccato tale misura, in quanto tali dispositivi elettronici sono del tutto carenti. D’altronde, quello del braccialetto elettronico è un problema di lunga durata. Tale dispositivo infatti può essere già disposto in caso di concessione della misura cautelare degli arresti domiciliari, ma di fatto non ha mai trovato applicazione, proprio per mancanza dei dispositivi stessi. Non si comprende dunque come si possa aver pensato di estendere una misura già dimostratasi inefficace, per risolvere il problema del sovraffollamento degli istituti. A prescindere poi da tale misura in questo momento è comunque complesso prevedere percorsi di acceleramento nella concessione delle misure alternative per coloro che sono in carcere e sono nei termini per richiederle. Come ho detto, sia per la mancanza dei giudici che del personale amministrativo, ma anche per la difficoltà nella situazione attuale di elaborare idonei programmi di reinserimento per i detenuti. La Camera Penale di Milano, insieme al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, ha dunque enucleato alcune proposte per porre rimedio alla situazione emergenziale. In buona sostanza si chiede di provvedere alle scarcerazione attraverso una serie di automatismi, in modo da intervenire subito per scongiurare il problema sanitario attualmente in essere e rimandando il giudizio sulla concedibilità o meno delle misure alternative a periodo emergenziale superato. Queste le misure suggerite:
a. temporanea presunzione di adeguatezza degli arresti domiciliari quale misura cautelare di massima gravità;
b. sospensione ad opera delle Procure della Repubblica o Procure Generali delle esecuzioni in corso delle pene residue sino a quattro anni per sei mesi con decorrenza dalla modifica legislativa; con facoltà, alla scadenza del termine di legge, di domandare una misura alternativa alla detenzione.
Ciò consentirebbe, al termine dell’emergenza, una valutazione oggi non possibile sulle modalità dell’esecuzione del residuo di pena da parte della magistratura di sorveglianza;
c. sospensione degli ordine di esecuzioni da eseguire per tutte le pene basse per evitare nuovi ingressi in carcere in questa fase;
d. portare il beneficio della liberazione anticipata (beneficio che in caso di buon comportamento prevede per il detenuto uno sconto di 45 giorni a semestre) a 75 con retrodatazione al gennaio del 2016. Tale misura potrebbe determinare l’immediata scarcerazione di un rilevante numero di detenuti
Argomenti: covid-19