Boomer contro millennial; generazione analogica contro nativi digitali. Il gap tecnologico tra chi è nato prima degli anni ’80 e chi ha visto l’avvento di internet è sempre stato un problema, anche se con il Coronavirus ha acquisito contorni del tutto diversi. Prima, lo scontro era meramente politico: penso, ad esempio, all’ascesa vertiginosa dei cinque stelle e della Lega negli ultimi dieci anni. Non sarebbe avvenuto senza una pressoché totale ignoranza digitale dei boomer (da ‘baby boomer’, come venivano chiamati in gergo anglosassone i nati tra la metà degli anni Quaranta e Sessanta, i cosiddetti figli del boom economico seguito dalla Seconda guerra mondiale), che – nella maggioranza ma non totalità dei casi – internet, semplicemente, non lo capiscono. E questo ha permesso un proliferare di fake news, notizie non controllate, storielle, leggende metropolitane, catene di sant’Antonio che di fatto ci hanno condotti a concetti recenti come la post-verità, il trolling, le truffe online.
Non che l’analfabetismo digitale sia una prerogativa degli anziani: le regole per muoversi all’interno di Internet (riassumibili nella massima ‘tutti stanno cercando di fregarti’) sono sconosciute anche a molti millennial (termine ombrello che comprende sia i nati dagli anni ’80 ai primi ’90 – generazione X – e quelli dalla seconda metà dei ’90 ai giorni nostri, la Generazione Z. Chissà con che lettera verranno chiamati i nati durante la pandemia di Coronavirus).
Insomma, nonostante Internet sia parte di noi, estensione delle nostre braccia, custode delle nostre case (Alexa o i vari altri device che controllano i nostri elettrodomestici, con un accesso orwelliano alle nostre abitazioni) e strumento del nostro lavoro, nonostante la vita senza Internet, specie in quarantena, sia impensabile, Internet per molti rimane una specie di religione, di cui esistono sacerdoti ed eretici, testi sacri e apocrifi. Perché un bias cognitivo del genere umano è proprio quello di mitizzare ciò che non si riesce a far rientrare nelle maglie della ragione.
Il proliferare dei gruppi WhatsApp che per molte famiglie mutilate dalla quarantena rappresentano l’unico modo per tenere insieme il nido anche a distanza, è stato colto come un’occasione d’oro per coloro che hanno tutto l’interesse di far scoppiare il panico e la rabbia sociale per approfittare della delicatissima situazione attraversata dal nostro paese. Su Globalist ne avevamo parlato, ma il messaggio deve continuamente essere ribadito. Specie se, come nel mio caso, avete passato più di qualche minuto a cercare di convincere i vostri genitori o parenti over 60 che no, il Governo non ha esteso la quarantena fino al 31 luglio e no, i figli di Renzi non vanno a giocare a pallavolo in quarantena.
Se le fake news in tempi a.C. (Avanti Coronavirus) erano problemi, ora non sono meno che crimini: chi le diffonde, che siano buone notizie o allarmismi, sta giocando con la fragile psiche del mondo Occidentale, spaesato e smarrito nel mezzo di una tempesta che ci ha strappato di mano, senza tanti complimenti, la normalità delle nostre vite. E il loro diffondersi su canali alternativi ai social network che – con colpevole ritardo – si sono attrezzati per combatterle, le rende ancora più subdole: come si controlla WhatsApp? Come pretendere che la gente faccia il fact checking quando non ha nemmeno la pazienza di andare oltre il titolo di una notizia?
La situazione chiama i giovani millenial a una responsabilità: insegnare. Per una volta, il sapere non deve passare dagli avi ai discendenti, ma risalire il fiume e andare controcorrente. I figli adolescenti, ventenni o trentenni dovrebbero prendere per mano (virtualmente, s’intende) i genitori, gli zii, i nonni e spiegare loro le regole auree della navigazione in rete: controllare tutto, fidarsi poco, e solamente di fonti sicure. Quali siano queste fonti è un altro paio di maniche: l’Oms, l’Iss e i siti istituzionali sono sicuramente più affidabili di tanti altri, ma non vuol dire che ci si può fidare del tutto: troppe volte sono arrivate informazioni contrastanti. Il fact checking non è un lavoro semplice, né veloce. Serve dimestichezza, voglia e soprattutto pazienza per dribblare chiunque cerchi di fregarci, chiunque semplifichi, chiunque stia sbagliando, volontariamente o meno.
E se la voglia manca? Allora la risposta è semplice: spegnere tutto. Non condividere nulla di cui non si sia certi. E non cadere nell’inganno delle catene: il fatto che la notizia sia arrivata ‘da quell’amico di cui ci fidiamo’ non vuol dire che sia vera, perché non sappiamo da dove sia partita. Quasi tutti noi abbiamo ricevuto, per esempio, la notizia dei medici di Wuhan che spiegavano che il virus si sconfigge esponendosi al sole, oppure che il Viminale sarebbe passato di porta in porta per controllare che chi abita negli appartamenti sia davvero lì residente. In alcuni casi ci abbiamo creduto e le abbiamo anche condivise, contribuendo a diffondere un virus più pericoloso del Sars-Cov-2. Un virus più subdolo perché sfrutta la nostra paura, la nostra fame di informazione e, ancora peggio, il nostro desiderio di proteggere chi amiamo. Ma in questo momento, il modo migliore per difenderci, è interrompere queste catene. E denunciarle, per evitare che il loro instancabile logorio spezzi le fondamenta di un mondo che dal Coronavirus uscirà trasformato, in modi che – e l’Ungheria di Orban ne è solo un assaggio – potrebbero essere più devastanti di quanto immaginiamo.
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