Migranti in Italia al tempo del Coronavirus. Storie dei "dannati" che non fanno audience
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Migranti in Italia al tempo del Coronavirus. Storie dei "dannati" che non fanno audience

Alcuni riescono a lavorare ma non sempre con guanti e mascherine. Va ancora peggio a chi sulla testa ha una lamiera, una tenda o il tetto di una masseria abbandonata.

Migranti indifesi con il coronavirus
Migranti indifesi con il coronavirus
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Aprile 2020 - 14.46


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Vita da migranti al tempo del Coronavirus. Una vita ancora più grama di quella, già segnata da abusi e sfruttamento, che marchiava la passata “normalità”. Una vita come quella dei braccianti che raccolgono frutta e verdura nei campi, fermati spesso ai controlli ma senza un contratto regolare da mostrare.

Alcuni riescono a lavorare ma non sempre con guanti e mascherine. Va ancora peggio a chi sulla testa ha una lamiera, una tenda o il tetto di una masseria abbandonata. Restano lì tutto il giorno e convivono con il rischio altissimo di contagiarsi fra loro. E’ nella piana di Gioia Tauro, in Calabria, e nei “ghetti” del Foggiano che suona l’allarme di associazioni e sindaci alle prese con tensioni sempre più forti tra scarsa sicurezza, spostamenti vietati e povertà imminente.

Gli schiavi del Terzo Millennio

Non fanno notizia, gli schiavi del Terzo Millennio. Non alzano l’audience.  Nei salotti mediatici che h.24 ossessionano – informare è altra cosa – sul Covid-19, narrando la favola che di fronte al virus siamo tutti eguali, non c’è spazio per loro. Semplicemente, non esistono.  Quando riemergono dal nulla, è per aggiornare i numeri: meno sbarchi, stanno a casa loro, nei lager libici, ad esempio, e non ci vengono a contaminare… Globalist non chiude gli occhi. E dà conto, assieme ad un mondo solidale che non è andato in quarantena, di situazioni indegne di un Paese che si vuole civile. Situazioni come quelle dei braccianti nei “ghetti”.  Circa 2500 quelli sparsi negli otto insediamenti abusivi della provincia di Foggia tra cui la baraccopoli di Borgo Mezzanone.

Un migliaio in Calabria, fra tendopoli e campi nella Piana che raccolgono arance e clementine. “Ora che c’è il problema delle forniture di cibo nei supermercati con il coronavirus, si ‘scopre’ che questi lavoratori servono – dice all’Ansa Francesco Piobbichi del progetto braccianti di Mediterranean Hope a Rosarno – Ma a maggior ragione devono avere risposte rapidamente e condizioni dignitose di vita, da parte delle istituzioni”. Alias sicurezza, regolarizzazione e ghetti da smontare, ripetono le ong della zona. Finita la stagione degli agrumi, i migranti si spostano verso Saluzzo per la raccolta di pesche, albicocche, mele o i pomodori in Puglia. “Ma ora sono bloccati, come faranno a spostarsi? Già vengono fermati in questi giorni e rimandati indietro se non hanno un contratto. Ma senza lavoro, come mangiano?”, chiede Ruggero Marra dell’Usb calabrese.

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Sono quasi tutti uomini tra i 20 e 40 anni, per lo più africani. Fra loro, i 440 della tendopoli di San Ferdinando, borgo calabrese di 5000 abitanti. La struttura è lì dall’estate 2017, sopravvissuta a quella sgomberata un anno fa da Matteo Salvini e conta in tutto 7 bagni. Ieri alcuni che vivono lì hanno protestato chiedendo aiuti per mangiare e fare la spesa e contro i piatti pronti che stava per preparare una cucina da campo, sollecitata anche dal Comune. Perciò è “sconcertato e addolorato” il sindaco Andrea Tripodi che rimarca: “la presenza dei migranti qui non scende dal cielo, è sempre stata funzionale alla nostra agricoltura ma una tendopoli deve restare finché c’è l’emergenza. Oltre, è inutile. E’ solo un luogo di sofferenze e risentimenti”. Il lavoro a cottimo è compensato con 3-4 euro per un cassone da 375 chili, ma si parla anche di un euro al giorno.

Storie di sfruttamento e di abusi sessuali. “La sera, quando i bambini andavano a letto, lui arrivava, mi mostrava la pistola e io dovevo fare quello che voleva. Cercavo di resistere, gli dicevo che ero distrutta per il lavoro nei campi, che lo odiavo, ma lui minacciava di prendersela con i miei figli.”

A fare violenza a Elena — 33 anni, di origine rumena — sarebbe stato un sessantenne, sposato, proprietario di alcune serre nelle campagne di Vittoria, in provincia di Ragusa. In quella zona, dove si stima lavorino come braccianti 5mila rumene, si coltivano quelli che molti considerano i pomodori più famosi d’Italia. Un giorno Elena è riuscita a scappare. Ha denunciato ed è entrata in un programma di protezione, dal quale è uscita perché aveva bisogno di lavorare, perdendo qualsiasi tutela. Lui, “il padrone”, non è mai finito in carcere. “Qualche mese fa me lo sono trovato fuori casa, che mi diceva di tenere la bocca chiusa”. Elena ha avuto la forza di denunciare, ma tante come lei, abusate, trattate come schiave sessuali, non ne hanno avuto la forza per paura di essere private anche di quei tre euro al giorno. O rispedite indietro, nell’inferno da cui erano fuggite.

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Una storia “esemplare”.

Un passo, breve, indietro nel tempo. Otto gennaio 2020. E’ stata chiamata “Euno”, dal nome dello schiavo siciliano che nel 136 a.C. guidò la prima guerra servile contro il possidente terriero Damofilo, l’operazione dei carabinieri che tra Reggio Calabria e altre province, su disposizione della Procura di Palmi. Caporali e imprenditori agricoli arrestati, ha ricostruito la Procura, durante l’intera stagione agrumicola 2018-2019 in modo sistematico hanno reclutato manodopera straniera anche irregolare, trasportando gli operai nelle aziende agricole locali del settore della raccolta e vendita di agrumi e, con la compiacenza dei titolari delle imprese (3 delle quali destinatarie di sequestro), ad impiegarli, approfittando del loro stato di bisogno, in condizioni di evidente sfruttamento. 

La filiera dello sfruttamento iniziava già alle 5 del mattino quando i caporali, alla guida di minivan e veicoli – il più delle volte non idonei alla circolazione ed al trasporto di persone – iniziavano a caricare a bordo i braccianti agricoli radunati in diversi punti di raccolta, tra la baraccopoli di San Ferdinando ed il campo containers di Rosarno, da dove venivano poi trasportati, in condizioni di estremo disagio, nei diversi fondi agricoli sparsi nel territorio per essere impiegati nella raccolta degli agrumi. I braccianti erano costretti a lavorare in condizioni precarie, obbligati a raccogliere mandarini ed arance 7 giorni su 7, festivi compresi, per 10-12 ore consecutive, con pause contingentate e senza dispositivi di protezione individuale e di tutela della salute. Ciascun lavoratore riceveva una paga giornaliera in relazione al numero di cassette di frutta raccolte (circa 1 euro a cassetta) e comunque non superiore ai 2-3 euro per ogni ora di lavoro, in palese violazione della normativa in materia di retribuzione. 

All’interno dei furgoni, omologati per il trasporto di non più di 9 passeggeri compreso il conducente, i caporali riuscivano a caricare fino a 15 persone in un’unica soluzione, costringendo i braccianti agricoli, già provati dalle scarse condizioni di vita all’interno della baraccopoli, a trovare posto su sedili di fortuna realizzati con tavole in legno, secchi di plastica, cassette per la raccolta e pneumatici usati di autoveicoli. In alcune occasioni i carabinieri hanno sorpreso alcuni lavoratori che, rannicchiati all’interno del bagagliaio di autovetture station-wagon, alla vista dei militari sono scappati per non farsi identificare per paura di subire eventuali sanzioni.

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La denuncia di Ong e sindacati

Le condizioni dei braccianti che oggi raccolgono i prodotti destinati alle nostre tavole sono spesso inaccettabili. Lo hanno dimostrato diverse inchieste giornalistiche e giudiziarie. Le baraccopoli in cui sono costretti a vivere sono luoghi insalubri e indecenti. Il rischio che il Covid-19 arrivi in quegli aggregati, tramutandoli in focolai della pandemia, è motivo di fondata apprensione. Per questo le associazioni, insieme ai sindacati hanno scritto una lettera appello alle istituzioni chiedendo maggiori tutele. Tra i primi firmatari ci sono l’associazione Terra!, insieme alla Flai Cgil, Oxfam, Da Sud, A Buon diritto, Magistratura democratica e Libera.

“Nella miseria dei ghetti, la cui ubicazione si incardina sempre nei distretti a forte vocazione agricola, il quotidiano degli immigrati è scandito da immutata cadenza nonostante la spada di Damocle rappresentata dal Covid-19. Molti di loro sono impiegati nel settore agricolo, più che mai indispensabile per la sicurezza alimentare della cittadinanza e la tenuta collettiva – si legge nella lettera -. L’Italia è alle prese con una grave emergenza sanitaria. La pandemia di Covid- 19 mette a dura prova la nazione il Paese, l’Europa e il pianeta nel suo complesso. Una drammatica situazione che richiede un impegno straordinario ad ogni livello della società, dalle istituzioni ai singoli. Oggi abbiamo più che mai bisogno tutti di fare riferimento ai principi di giustizia sociale e solidarietà insiti nella Costituzione per fare fronte a una minaccia inedita”.

Giustizia sociale e solidarietà. Gli antidoti più efficaci al virus dello sfruttamento perpetrato contro i “dannati della terra”.

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