Avverto il doloroso sospetto che neppure la pandemia è in grado di smuovere il cuore pietrificato dell’Occidente e di spegnere la nevrosi securitaria che ha oscurato le coscienze in questi primi decenni del nuovo millennio.
Mentre contiamo i morti del coronavirus, e tutto il Paese si infiamma di patriottismo e di ritrovata unità nazionale, al largo della Sicilia si ripete la stessa tragedia del naufragio di esseri umani, senza che emerga una volontà politica di porre fine a questa ecatombe.
Un gommone con 55 persone è sparito nel tratto di mare fra Lampedusa e Malta, mentre le autorità mettevano in scena l’ennesimo osceno balletto delle responsabilità.
Un decreto firmato da 4 Ministri del Governo Conte, prima di Pasqua, ha dichiarato che l’Italia non è un porto sicuro, secondo la Convenzione di Amburgo, e quindi ha chiesto alla Germania di prendersi carico dei migranti che sono stati salvati dalla nave tedesca Alan Kurdi della Ong Sea eye.
In buona sostanza anche l’attuale governo prosegue nella politica antimigrazionista e utilizza l’argomento del virus per chiudere i porti e impedire qualunque approdo in Italia per i barconi che partono dalla Libia.
Con Salvini la filosofia era: non vogliamo migranti perché portano le malattie, ora il nuovo esecutivo ha rovesciato il paradigma: non vogliamo migranti perché siamo malati.
In entrambi i casi la vera ragione e il punto di unione è il disprezzo per la vita degli altri, di quelli che sono diversi da noi.
L’espansione pandemica del virus avrebbe dovuto insegnare che c’è un unico mondo e che, come scriveva nel 1969 Fredrik Barth, le differenze fra gli esseri umani vengono create perché ci sono i confini e i muri, ma anche nel momento della nostra maggiore fragilità siamo disposti ad accettare questa dura verità.
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