Lo scorso 20 febbraio Annalisa Malara, professione anestesista all’ospedale di Codogno, si è trovata davanti un uomo di nome Mattia. Annalisa si è accorta subito che Mattia era in condizioni critiche: stava morendo per una polmonite devastante, peggiorata in 24 ore, ed era accompagnata dalla moglie incinta di 8 mesi, spaventatissima. Annalisa a quel punto ha avuto un sospetto e ha deciso di fare un tampone a quello che sarebbe diventato il primo caso italiano di Covid-19. Il resto è storia, tragica.
“Ho camminato per due mesi tra file di pazienti addormentati, intubati, con quadri identici: polmonite gravissima” racconta oggi Annalisa, che per fare quel tampone che ha precipitato l’Italia nell’incubo Coronavirus ha forzato il protocollo che non prevedeva quella procedura. Ma, rivela, non pensava fosse possibile. E invece in una notte la vita dell’Italia intera è cambiata.
A cominciare dalla sua. “Non vedo di persona i miei genitori da allora”, confessa Annalisa, per la quale “la quarantena è cominciata da subito, come una zona rossa istantanea. Chiusa totalmente in casa per 4 giorni, la spesa me la lasciava la vicina sullo zerbino. Poi ho fatto il tampone, è risultato negativo e sono tornata al lavoro con mascherina e protezioni”.
Sono stati “due mesi intensi, che ci hanno provato non solo dal punto di vista fisico e lavorativo, ma anche psicologico. Siamo stati travolti da una quantità impressionante di malati di ogni età, tantissimi giovani come Mattia”. Ora che i numeri stanno calando, “con i colleghi sogniamo il giorno in cui dimetteremo l’ultimo malato di Covid-19. Per tirarci su il morale ci diciamo: ‘Dai che finisce, chiudiamo il reparto per un mese e ce ne andiamo tutti al mare’. Ovviamente non ancora è possibile, ma ci piace pensarlo”. In realtà Annalisa ha un altro obiettivo. “La prima cosa che voglio fare è tornare a camminare in montagna in mezzo alla natura come amo fare, senza pensieri”. Chissà quando potrà di nuovo, si dice.
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