Come la rivolta dei neri americani si è trasformata in una buffonata dei bianchi italiani
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Come la rivolta dei neri americani si è trasformata in una buffonata dei bianchi italiani

In Italia si è fatto di tutto - e ci si è riusciti - per trasformare una protesta moderna e giusta in un'ennesima querelle sul nostro passato da bianchi

La statua di Montanelli imbrattata
La statua di Montanelli imbrattata
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Giuseppe Cassarà Modifica articolo

15 Giugno 2020 - 15.30


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Dall’altra parte dell’Atlantico, nelle strade degli Stati Uniti d’America, le persone nere stanno scendendo per strada e in piazza, incendiando palazzi e combattendo con la polizia armata (che ha ucciso un altro afroamericano solo venerdì, e non è certo il primo manifestante a morire) perché dal 23 giugno 1865, giorno della fine della Guerra Civile americana, quelle stesse strade e piazze sono dedicate a generali confederati che combattevano per tenerli schiavi.

Immaginate di vivere, abitare, lavorare, camminare nelle strade intitolate a uomini che volevano che non aveste diritti. Immaginate come deve sentirsi un nero di Richmond, Virginia, quando passa dalla piazza dove sorge il Monumento ai soldati confederati, adesso diventato un memoriale per Goerge Floyd.

Gli Stati Uniti quest’anno fanno 244 anni. Neanche due secoli e mezzo di storia, una storia costruita sullo schiavismo e sullo sfruttamento dei neri. E le radici del razzismo arrivano fino a Cristoforo Colombo: grande navigatore, grande esploratore, grande italiano. Ma dopo di lui, l’unica brama che ha spinto gli europei colonizzatori è stata quella dell’avidità, che non si è fermata davanti a nulla: un intero popolo, quello dei Nativi americani, sterminato e cancellato dalla storia, costretto nelle riserve e adesso parte di un paese che celebra Colombo e i colonizzatori europei come padri della Patria.

Gli Stati Uniti sono un paese giovane, pieno di contraddizioni, violento, sistematicamente razzista. Le proteste che stanno infiammando le sue strade non potrebbero avvenire da nessun altra parte, ma hanno qualcosa di insegnare. Ossia che il potere basato sul white privilege, il privilegio delle persone bianche di avere un innegabile vantaggio in qualunque campo, deve finire. Che il sistema razzista, sessista, omofobo e misogino che è culminato con l’elezione di Donald Trump sta collassando e che ci troviamo davanti a un momento di enorme portata storica. Chiunque si lamenti delle statue distrutte, delle proteste, delle violenze, è solo un bianco che sente che i suoi privilegi stanno iniziando a vacillare. E lo stesso vale per chi, qui in Italia, ha fatto di tutto – e ci è riuscito – per focalizzare l’attenzione sulla diatriba ‘Montanelli sì-Montanelli no’.

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La proposta dei Sentinelli di Milano che ha dato il via a questa ennesima querelle sulla statua del giornalista stupratore di 12enni è stata creata sulla falsariga dell’abbattimento delle statue dei confederati razzisti americani. Un gesto simbolico potentissimo che trova senso e significato in quel contesto. Da noi, quella di Montanelli è una questione irrisolta, una delle tante, che affligge il nostro paese da sempre, a causa dell’incapacità sistemica  e tutta italiana di fare i conti con le proprie malefatte. E questo non vale solo per Montanelli.

Vale per il fatto che il 2 giugno ricorreva l’anniversario della morte di Soumaila Sacko, il bracciante ucciso da un razzista mentre stava raccogliendo del metallo per rinforzare la baracca dove era costretto a vivere, mentre raccoglieva la frutta e la verdura che mangiamo ogni giorno, insieme agli altri schiavi vittime del caporalato.

Non c’è stata nessuna manifestazione, nessun ricordo. Nessuno sapeva più chi fosse Soumaila, per il semplice fatto che la sua vita non contava. Non per noi.

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Vale anche per il fatto che per risolvere il problema del caporalato la ministra Teresa Bellanova, che ha anche il coraggio di mettersi a piangere per la gioia pelosa del colonizzatore bianco, ha creato una sanatoria di sei mesi, giusto il tempo di raccogliere i frutti dei campi. Poi torneranno ad essere invisibili e vittime del sistema mafioso che li schiavizza.

Vale anche per il fatto che con le nostre tasse ogni giorno finanziamo i lager libici, secondo gli accordi sottoscritti dall’allora ministro Minniti. Le vite di quelle centinaia di persone che muoiono ogni giorno nei lager e nel Mediterraneo non contano. Non per noi.

Ma il problema irrisolto più grave, la rimozione più sistemica che questo Paese ha compiuto è sempre la stessa: il nostro passato fascista, di cui Indro Montanelli, col suo stuprare una 12enne, è stato complice. Ma questo in Italia non si può dire. Non si può dire perché le inevitabili sfumature della storia sono state completamente divorate dall’estremismo ideologico che ha ferocemente trasformato un dibattito sul razzismo moderno in una diatriba sulla figura di Indro Montanelli.

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Pochi giorni prima che la statua di Montanelli venisse imbrattata, la Porta d’Europa di Lampedusa, un monumento dedicato ai migranti morti in mare, è stato vandalizzato. Le barche su cui quei migranti sono annegati sono state bruciate. Se ne è parlato un giorno, e non se ne parlerà più. Perché quella è un’altra malefatta con cui ci rifiutiamo di fare i conti.

È giusto parlare dei crimini razzisti di Montanelli, ma – con tutto il rispetto per i Sentinelli di Milano – abbiamo per l’ennesima volta perso un’occasione per fare qualcosa di utile. I braccianti esclusi dalla sanatoria della Bellanova, quelli in questo momento nei lager in Libia, quelli a Lesbo in Grecia, quelli gettati in mezzo alla strada per effetto del decreto Salvini, i figli dei migranti nati e cresciuti in Italia che però, per lo Stato, non sono italiani, a tutte queste persone di Indro Montanelli e di questa buffonata da bianchi annoiati non importa nulla. Come ha detto giustamente Aboubakar Soumahoro, inginocchiarsi non basta: le piazze vogliono fatti.

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