Genova, diciannove anni fa: quando in Italia la democrazia fu sospesa
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Genova, diciannove anni fa: quando in Italia la democrazia fu sospesa

19 anni fa i fatti di Genova, che Amnesty International ha definito come la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale. [Nick Davies]

Torture alla Diaz durante il G8 di Genova
Torture alla Diaz durante il G8 di Genova
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19 Luglio 2020 - 10.46


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Sono passati 19 anni dai fatti del G8 di Genova del 2001. Riproponiamo un reportage di Nick Davies, giornalista del Guardian, per non dimenticare quelle giornate che, come è stato detto da Amnesty International, sono state caratterizzate dalla più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale. 

di Nick Davies*

Mancava poco a mezzanotte quando il primo poliziotto colpì Mark Covell con una manganellata sulla spalla sinistra. Covell cercò di urlare in italiano che era un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato dagli agenti in tenuta antisommossa che lo tempestarono di colpi. Per un po’ riuscì a restare in piedi, poi una bastonata sulle ginocchia lo fece crollare sul selciato.

Mentre giaceva con la faccia a terra nel buio, contuso e spaventato, si rese conto che i poliziotti si stavano radunando per attaccare l’edificio della scuola Diaz, dove 93 ragazzi si erano sistemati per passare la notte. Mark sperò che rompessero subito la catena del cancello, così forse l’avrebbero lasciato in pace. Avrebbe potuto alzarsi e raggiungere la redazione di Indymedia dall’altra parte della strada, dove aveva passato gli ultimi tre giorni scrivendo articoli sul G8 e sulle violenze della polizia.

Proprio in quel momento un agente gli saltò addosso e gli diede un calcio al petto con tanta violenza da incurvargli tutta la parte sinistra della gabbia toracica, rompendogli una mezza dozzina di costole. Le schegge gli lacerarono la pleura del polmone sinistro. Covell, che è alto 1,73 e pesa meno di 51 chili, venne scaraventato sulla strada. Sentì ridere un agente e pensò che non ne sarebbe uscito vivo.

Mentre la squadra antisommossa cercava di forzare il cancello, per ingannare il tempo alcuni agenti cominciarono a colpire Covell come se fosse un pallone. La nuova scarica di calci gli ruppe la mano sinistra e gli danneggiò la spina dorsale. Alle sue spalle, Covell sentì un agente che urlava “Basta! Basta!” e poi il suo corpo che veniva trascinato via.

Intanto un blindato della polizia aveva sfondato il cancello della scuola e 150 poliziotti avevano fatto irruzione nell’edificio con caschi, manganelli e scudi. Due poliziotti si fermarono accanto a Covell, uno lo colpì alla testa con il manganello e il secondo lo prese a calci sulla bocca, spaccandogli una dozzina di denti. Covell svenne.

Non dimenticare

Ci sono diversi buoni motivi per non dimenticare cos’è successo a Mark Covell quella notte a Genova. Il primo è che fu solo l’inizio. A mezzanotte del 21 luglio 2001 i poliziotti occuparono i quattro piani della scuola Diaz imponendo il loro particolare tipo di disciplina ai suoi occupanti e riducendo i dormitori improvvisati in quella che in seguito un funzionario di polizia ha definito “una macelleria messicana”. Poi quegli stessi agenti e i loro colleghi incarcerarono illegalmente le vittime in un centro di detenzione che diventò un luogo di terrore.

Il secondo motivo è che, sette anni dopo, Covell e i suoi compagni aspettano ancora giustizia. Il 14 luglio 2008 quindici poliziotti, guardie penitenziarie e medici carcerari sono stati condannati per il loro ruolo nelle violenze. Ma nessuno sconterà la pena. In Italia gli imputati non vanno in prigione fino alla conclusione dell’ultimo grado di giudizio, e le condanne per i fatti di Genova cadranno in prescrizione l’anno prossimo. I politici che all’epoca erano responsabili della polizia, delle guardie penitenziarie e dei medici carcerari non hanno mai dovuto dare spiegazioni.

Le domande fondamentali su come tutto ciò sia potuto accadere rimangono senza risposta e rimandano al terzo e più importante motivo per ricordare Genova. Questa non è semplicemente una storia di poliziotti esaltati. Sotto c’è qualcosa di più grave e preoccupante.

Questa storia può essere raccontata solo grazie al duro lavoro coordinato da un pubblico ministero appassionato e coraggioso, Enrico Zucca. Con l’aiuto di Covell e di una squadra di magistrati, Zucca ha raccolto centinaia di testimonianze e analizzato cinquemila ore di video e migliaia di fotografie. Tutte insieme raccontano una storia cominciata proprio mentre Covell giaceva a terra sanguinante.

Come porci
I poliziotti irruppero nella Diaz. Alcuni gridavano “Black bloc! Adesso vi ammazziamo”. Ma si sbagliavano di grosso se credevano di dover affrontare i black bloc che avevano scatenato i disordini in alcune zone della città durante le manifestazioni di quel giorno. La scuola era stata messa a disposizione dal comune di Genova a dei ragazzi che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano perfino organizzato un servizio di sicurezza per accertarsi che i black bloc non potessero entrare nello stabile.

 


Genova, 21 luglio 2001. (Reuters/Contrasto) 

Uno dei primi ad accorgersi dell’irruzione fu Michael Gieser, un economista belga di 35 anni che si era appena messo il pigiama e stava facendo la fila davanti al bagno con lo spazzolino in mano. Gieser crede nel dialogo e in un primo momento si diresse verso gli agenti dicendo: “Dobbiamo parlare”. Vide i giubbotti imbottiti, gli sfollagente, i caschi e le bandane che nascondevano i volti dei poliziotti, cambiò idea e scappò di corsa per le scale.

Gli altri furono più lenti. Erano ancora nei sacchi a pelo. I dieci spagnoli accampati nell’atrio della scuola si svegliarono sotto i colpi dei manganelli. Alzarono le mani in segno di resa, ma altri poliziotti cominciarono a picchiarli in testa, provocando tagli e ferite e fratturando il braccio a una donna di 65 anni. Nella stessa stanza alcuni ragazzi erano seduti davanti al computer e mandavano email a casa. Tra loro c’era Melanie Jonasch, 28 anni, studentessa di archeologia a Berlino, che si era offerta di lavorare nella scuola e non aveva neppure partecipato ai cortei.

Melanie non riesce ancora a ricordare cosa accadde. Ma molti testimoni hanno raccontato che i poliziotti l’aggredirono e la colpirono alla testa con tanta violenza che perse subito conoscenza. Quando cadde a terra, gli agenti la circondarono continuando a picchiarla e a prenderla a calci, sbattendole la testa contro un armadio e alla fine lasciandola in una pozza di sangue. Katherina Ottoway, che vide la scena, ricorda: “Tremava tutta. Aveva gli occhi aperti ma rovesciati all’insù. Pensai che stesse morendo, che non sarebbe sopravvissuta”.

Nessuno dei ragazzi che erano al piano terra sfuggì al pestaggio. Come ha scritto Zucca nella sua requisitoria: “Nell’arco di pochi minuti, tutti gli occupanti del piano terra furono ridotti all’impotenza. I gemiti dei feriti si univano agli appelli a chiamare un’ambulanza”. Per la paura, alcune vittime persero il controllo dello sfintere. Poi gli agenti si diressero verso le scale.

Nel corridoio del primo piano trovarono un piccolo gruppo di persone, tra cui Gieser, che stringeva ancora il suo spazzolino: “Qualcuno suggerì di sdraiarsi, per dimostrare che non facevamo nessuna resistenza, così mi sdraiai. I poliziotti arrivarono e cominciarono a picchiarci, uno dopo l’altro. Io mi riparavo la testa con le mani e pensavo: ‘Devo resistere’. Sentivo gridare ‘basta, per favore’ e lo ripetevo anch’io. Mi faceva pensare a quando si sgozzano i maiali. Ci stavano trattando come animali, come porci”.

I poliziotti abbatterono le porte delle stanze che si affacciavano sui corridoi. In una trovarono Dan McQuillan e Norman Blair, arrivati in aereo da Stansted, vicino Londra, per manifestare a favore di “una società libera e giusta dove la gente possa vivere in armonia”, spiega McQuillan. Avevano sentito la polizia al piano terra e insieme a un amico neozelandese, Sam Buchanan, avevano cercato di nascondersi con le loro borse sotto dei tavoli in un angolo di una stanza buia. Una decina di agenti fece irruzione nel locale e li illuminò con una torcia. McQuillan scattò in piedi, alzò le mani e cominciò a ripetere “Calma, calma”, ma non servì a fermare i poliziotti. McQuillan ne uscì con un polso rotto. “Sentivo tutto il loro veleno e il loro odio”, ricorda Norman Blair.

Gieser era in corridoio: “Intorno a me era tutto coperto di sangue. Un poliziotto gridò ‘Basta!’ e per un attimo sperammo che tutto sarebbe finito. Ma gli agenti non si fermarono, continuarono a picchiare di gusto. Alla fine ubbidirono all’ordine, ma erano come dei bambini a cui si toglie un giocattolo contro la loro volontà”.

Ormai c’erano poliziotti in tutta la scuola. Picchiavano e davano calci. Secondo molte vittime c’era quasi del metodo nella loro violenza: gli agenti pestavano chiunque gli capitasse a tiro, poi passavano alla vittima successiva lasciando a un collega il compito di continuare a picchiare la prima. Sembrava importante che tutti fossero pestati a sangue. Nicola Doherty, un’assistente sociale di Londra di 26 anni, racconta che il suo compagno, Richard Moth, si sdraiò sopra di lei per proteggerla. “Sentivo i colpi sul suo corpo, uno dopo l’altro. I poliziotti si allungavano per raggiungere le parti del mio corpo che erano rimaste scoperte”. Nicola cercò di proteggersi la testa con il braccio. Le ruppero il polso.

Un crescendo di violenza

Un gruppo di uomini e donne fu costretto a inginocchiarsi in un corridoio in modo che i poliziotti potessero colpirli più facilmente sulla testa e sulle spalle. Daniel Albrecht, 21 anni, studente di violoncello a Berlino, fu colpito così violentemente che dovettero operarlo per fermare l’emorragia cerebrale. Fuori dall’edificio, i poliziotti tenevano i manganelli al contrario, usando il manico ad angolo retto come un martello.

In questo crescendo di violenza ci furono momenti in cui i poliziotti scelsero l’umiliazione. Un agente si mise a gambe aperte davanti a una donna inginocchiata e ferita, si afferrò il pene e glielo avvicinò al viso. Poi si girò e fece la stessa cosa con Daniel Albrecht, che era inginocchiato lì accanto. Un altro poliziotto interruppe un pestaggio per prendere un coltello e tagliare i capelli alle vittime, tra cui Nicola Doherty. Un altro chiese a un gruppo di ragazzi se stavano bene e quando uno disse di no, partì un’altra scarica di botte.

Alcuni riuscirono a sfuggire alla violenza, almeno per un po’. Karl Boro scappò sul tetto, ma poi fece l’errore di rientrare nella scuola e subì lo stesso trattamento degli altri. Riportò gravi lesioni alle braccia e alle gambe, una frattura cranica e un’emorragia toracica. Jaraslav Engel, polacco, riuscì a uscire dalla Diaz arrampicandosi sulle impalcature, ma fu preso sulla strada da alcuni autisti della polizia che gli spaccarono la testa, lo scaraventarono per terra e rimasero a fumare mentre il suo sangue scorreva sull’asfalto.

Due studenti tedeschi, Lena Zuhlke, 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen, furono tra gli ultimi a essere presi. Si erano nascosti in un armadio usato dagli addetti alle pulizie all’ultimo piano. Sentirono la polizia che si avvicinava sbattendo i manganelli sulle pareti delle scale. La porta dell’armadio venne aperta, Martensen fu trascinato fuori e picchiato da una decina di poliziotti schierati a semicerchio intorno a lui. Zuhlke attraversò di corsa il corridoio e si nascose nel bagno. I poliziotti la videro, la seguirono e la trascinarono fuori per i capelli. In corridoio, l’aggredirono come cani addosso a un coniglio. Fu colpita alla testa e poi presa a calci da ogni parte finché sentì collassare la gabbia toracica. La rimisero in piedi appoggiandola a una parete dove un poliziotto le dette una ginocchiata all’inguine mentre gli altri continuarono a prenderla a manganellate. Scivolò giù, ma la picchiarono ancora: “Sembrava che si divertissero, quando gridavo di dolore sembrava che godessero ancora di più”.

I poliziotti trovarono un estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite di Martensen. Zuhlke venne afferrata per i capelli e scaraventata per le scale a testa in giù. Alla fine, trascinarono la ragazza nell’ingresso del piano terra, dove avevano ammassato decine di prigionieri insanguinati e sporchi di escrementi. La gettarono sopra ad altre due persone. Non si muovevano e Zuhlke, tramortita, chiese se erano vivi. Nessuno rispose e lei rimase supina. Non muoveva più il braccio destro ma non riusciva a tenere fermi il braccio sinistro e le gambe, che si contraevano convulsamente. Il sangue le gocciolava dalle ferite alla testa. Un gruppo di poliziotti le passò accanto: uno dopo l’altro si sollevarono le bandane che gli coprivano il volto e le sputarono in faccia.

Mussolini e Pinochet

Perché dei rappresentanti della legge si comportarono con tanto disprezzo della legge? La risposta più semplice può essere quella che ben presto venne urlata dai manifestanti fuori dalla Diaz: “Bastardi!”. Ma stava succedendo qualcos’altro, qualcosa che emerse più chiaramente nei giorni seguenti.

Covell e decine di altre vittime dell’irruzione furono portati all’ospedale San Martino, dove i poliziotti camminavano su e giù per i corridoi, battendo il manganello sul palmo delle mani, ordinando ai feriti di non muoversi e di non guardare dalla finestra, lasciandoli ammanettati. Poi, senza che fossero stati medicati, li spedirono all’altro capo della città nel centro di detenzione di Bolzaneto, dove erano trattenute decine di altri manifestanti, presi alla Diaz e nei cortei.

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I primi segnali che c’era qualcosa di più grave possono sembrare banali. Alcuni poliziotti avevano vecchie canzoni fasciste come suoneria del cellulare e parlavano con ammirazione di Mussolini e Pinochet. Diverse volte ordinarono ai prigionieri di gridare “Viva il duce” e usarono le minacce per costringerli a intonare canzoni fasciste: “Uno, due, tre. Viva Pinochet!”.


Genova, 22 luglio 2001. Un’aula della scuola Diaz. (Alberto Giuliani, Luzphoto)

Le 222 persone detenute a Bolzaneto furono sottoposte a un trattamento che in seguito i pubblici ministeri hanno definito tortura. All’arrivo furono marchiati con dei segni di pennarello sulle guance e molti furono costretti a camminare tra due file di poliziotti che li bastonavano e li prendevano a calci. Una parte dei prigionieri fu trasferita in celle che contenevano fino a 30 persone. Qui furono costretti a restare fermi in piedi davanti al muro, con le braccia in alto e le gambe divaricate. Chi non riusciva a mantenere questa posizione veniva insultato, schiaffeggiato e picchiato. Mohammed Tabach, che ha una gamba artificiale e non riusciva a sopportare la fatica della posizione, crollò. Fu ricompensato con due spruzzate di spray al pepe e, più tardi, un pestaggio particolarmente feroce.

Norman Blair ricorda che mentre era in piedi nella posizione che gli avevano ordinato una guardia gli chiese: “Chi è lo stato?”. “La persona davanti a me aveva risposto ‘Polizei’, così detti la stessa risposta. Avevo paura che mi pestassero”.

Stefan Bauer osò dare un’altra risposta: quando una guardia che parlava tedesco gli chiese di dove era, rispose che veniva dall’Unione europea e aveva il diritto di andare dove voleva. Lo trascinarono fuori, lo riempirono di botte e di spray al pepe sulla faccia, lo spogliarono e lo misero sotto una doccia fredda. I suoi vestiti furono portati via e dovette tornare nella cella gelida con un camice d’ospedale.

Tremanti sui pavimenti di marmo delle celle, i detenuti ebbero solo qualche coperta, furono tenuti svegli senza mangiare e gli venne negato il diritto di telefonare e a vedere un avvocato. Sentivano pianti e urla dalle altre celle.

Uomini e donne con i capelli rasta vennero brutalmente rasati. Marco Bistacchia fu portato in un ufficio, denudato, costretto a mettersi a quattro zampe e ad abbaiare. Poi gli ordinarono di gridare “Viva la polizia italiana!”. Singhiozzava troppo per ubbidire. Un poliziotto anonimo ha dichiarato al quotidiano La Repubblica di aver visto dei colleghi che urinavano sui prigionieri e li picchiavano perché si rifiutavano di cantare Faccetta nera.

Minacce di stupro
Ester Percivati, una ragazza turca, ricorda che le guardie la chiamarono puttana mentre andava al bagno, dove una poliziotta le ficcò la testa nel water e un suo collega maschio le urlò: “Bel culo! Ti piacerebbe che ci infilassi dentro il manganello?”. Alcune donne hanno riferito di minacce di stupro, anale e vaginale.

Perfino l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, che aveva difeso con il suo corpo la compagna, era coperto di tagli e lividi. Gli misero dei punti in testa e sulle gambe senza anestesia. “Fu un’esperienza molto dolorosa e traumatica. Dovevano tenermi fermo con la forza”, ricorda. Tra le persone condannate il 14 luglio ci sono anche alcuni medici della prigione.

Tutti hanno dichiarato che non fu un tentativo di costringere i detenuti a confessare, ma solo un esercizio di terrore. E funzionò. Nelle loro testimonianze, i prigionieri hanno descritto la sensazione d’impotenza, di essere tagliati fuori dal mondo in un luogo senza legge e senza regole. La polizia costrinse i prigionieri a firmare delle dichiarazioni. Un francese, David Larroquelle, ebbe tre costole rotte perché non voleva firmare. Anche Percivati si rifiutò: gli sbatterono la faccia contro la parete dell’ufficio, rompendole gli occhiali e facendole sanguinare il naso.

All’esterno arrivò una versione dei fatti molto distorta. Il giorno dopo il pestaggio Covell riprese conoscenza all’ospedale e si accorse che una donna gli stava scuotendo la spalla. Pensò che fosse dell’ambasciata inglese, poi quando l’uomo che era con lei cominciò a scattare foto si rese conto che era una giornalista. Il giorno dopo il Daily Mail pubblicò in prima pagina una storia inventata di sana pianta secondo cui Covell aveva contribuito a pianificare gli scontri (ci sono voluti quattro anni perché il Mail si scusasse e risarcisse Covell per aver violato la sua privacy).

Mentre alcuni cittadini britannici venivano pestati e trattenuti illegalmente, i portavoce del primo ministro Tony Blair dichiararono: “La polizia italiana doveva fare un lavoro difficile. Il premier ritiene che lo abbia svolto”.

Le forze dell’ordine italiane raccontarono ai mezzi d’informazione una serie di menzogne. Perfino mentre i corpi insanguinati venivano trasportati fuori dalla Diaz in barella, i poliziotti raccontavano ai giornali che le ambulanze allineate nella strada non avevano nulla a che fare con l’incursione, che le ferite dei ragazzi erano precedenti all’incursione, e che l’edificio era pieno di estremisti violenti che avevano attaccato gli agenti.

Il giorno dopo, le forze dell’ordine tennero una conferenza stampa in cui annunciarono che tutte le persone presenti nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. Alla fine, i tribunali italiani hanno respinto tutti i capi di accusa contro ogni singolo imputato, Covell compreso. I tentativi della polizia d’incriminarlo per una serie di reati gravissimi sono stati definiti “grotteschi” dal pubblico ministero Enrico Zucca.

Nella stessa conferenza stampa, furono esibite quelle che la polizia descrisse come armi: piedi di porco, martelli e chiodi che gli stessi agenti avevano preso in un cantiere accanto alla scuola, strutture in alluminio degli zaini, 17 macchine fotografiche, 13 paia di occhialini da nuoto, 10 coltellini e un flacone di lozione solare. Mostrarono anche due bombe molotov che, come ha concluso in seguito Zucca, erano state trovate in precedenza dalla polizia in un’altra zona della città e introdotte alla Diaz alla fine del blitz.

Queste bugie facevano parte di un più ampio tentativo di inquinare i fatti. La notte dell’incursione, un gruppo di 59 poliziotti entrò nell’edificio di fronte alla Diaz dove c’era la redazione di Indymedia e dove, soprattutto, un gruppo di avvocati stava raccogliendo le prove degli attacchi della polizia ai manifestanti. Gli agenti andarono nella stanza degli avvocati, li minacciarono, spaccarono i computer e sequestrarono i dischi rigidi. Portarono via tutto ciò che conteneva fotografie e filmati.

Poiché i magistrati rifiutavano di incriminare gli arrestati, la polizia riuscì a ottenere l’ordine di espellerli dal paese, con il divieto di tornare per cinque anni. In questo modo i testimoni furono allontanati dalla scena. In seguito i giudici hanno giudicato illegali tutti gli ordini di espulsione, così come i tentativi d’incriminazione.

Nessuna spiegazione

Zucca ha lottato per anni contro le bugie e gli insabbiamenti. Nella memoria che accompagna la richiesta di rinvio a giudizio ha dichiarato che tutti i dirigenti coinvolti negavano di aver avuto un ruolo nella vicenda: “Neppure un funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo sostanziale di comando per qualsiasi aspetto dell’operazione”. Un alto funzionario ripreso in video sulla scena ha dichiarato che quella notte era fuori servizio ed era passato alla Diaz solo per accertarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia cambiavano continuamente ed erano contraddittorie, e sono state platealmente smentite dalle prove fornite dalle vittime e da numerosi video. “Nessuno dei 150 poliziotti presenti all’operazione ha fornito informazioni precise su un singolo episodio”.

Senza Zucca, senza la determinazione dei magistrati italiani, senza l’intenso lavoro di Covell per trovare i filmati sull’incursione alla Diaz, la polizia avrebbe potuto sottrarsi alle sue responsabilità e ottenere false incriminazioni e pene detentive contro decine di vittime. Oltre al processo per i fatti di Bolzaneto, che si è appena concluso, altri 28 agenti e dirigenti della polizia sono sotto accusa per il loro ruolo nell’incursione alla Diaz. Eppure, la giustizia è stata compromessa.

 
Genova, 20 luglio 2001. La polizia davanti al cadavere di Carlo Giuliani.

 

Nessun politico italiano è stato chiamato a rendere conto dell’accaduto, anche se c’è il forte sospetto che la polizia abbia agito come se qualcuno le avesse promesso l’impunità. Un ministro visitò Bolzaneto mentre i detenuti venivano picchiati e a quanto sembra non vide nulla, o almeno nulla che ritenesse di dover impedire. Secondo molti giornalisti, Gianfranco Fini – ex segretario del partito neofascista Msi e all’epoca vicepremier – si trovava nel quartier generale della polizia. Nessuno gli ha mai chiesto di spiegare quali ordini abbia dato.

Gran parte dei rappresentanti della legge coinvolti nelle vicende della scuola Diaz e di Bolzaneto – e sono centinaia – se l’è cavata senza sanzioni disciplinari e senza incriminazioni. Nessuno è stato sospeso, alcuni sono stati promossi. Nessuno dei funzionari processati per Bolzaneto è stato accusato di tortura: la legge italiana non prevede questo reato. Alcuni funzionari di polizia che all’inizio dovevano essere accusati per il blitz alla Diaz hanno evitato il processo perché Zucca non è riuscito a dimostrare che esisteva una catena di comando. Ancora oggi, il processo ai 28 funzionari incriminati è a rischio perché Silvio Berlusconi vorrebbe far approvare una legge per rinviare tutti i procedimenti giudiziari che riguardano fatti accaduti prima del giugno 2002. Nessuno è stato incriminato per le violenze inflitte a Covell. E come ha detto Massimo Pastore, uno degli avvocati delle vittime, “nessuno vuole ascoltare quello che questa storia ha da dire”.

La lezione della Diaz
È una storia di fascismo. Circolano molte voci che poliziotti, carabinieri e personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non ci sono le prove. Secondo Pastore, però, così si rischia di perdere di vista la questione principale: “Non si tratta solo di qualche fascista esaltato. È un comportamento di massa della polizia. Nessuno ha detto no. Questa è la cultura del fascismo”. La requisitoria di Zucca parla di “sospensione dello stato di diritto”.

Cinquantadue giorni dopo l’irruzione nella Diaz, diciannove uomini usarono degli aerei pieni di passeggeri per colpire al cuore le democrazie occidentali. Da quel momento, politici che non si definirebbero mai fascisti hanno autorizzato intercettazioni telefoniche a tappeto, controlli della posta elettronica, detenzioni senza processo, torture sistematiche sui detenuti e l’uccisione mirata di semplici sospetti, mentre la procedura dell’estradizione è stata sostituita dalla “consegna straordinaria” di prigionieri.

Questo non è il fascismo dei dittatori con gli stivali militari e la schiuma alla bocca. È il pragmatismo dei nuovi politici dall’aria simpatica. Ma il risultato appare molto simile. Genova ci dice che quando il potere si sente minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso. Ovunque.

L’inchiesta è del Guardian. Traduzione per Internazionale di Maria Giuseppina Cavallo.

*Nick Davies è un giornalista britannico. Scrive per il Guardian e gira documentari. Ha vinto il premio Martha Gellhorn e il premio europeo per il giornalismo per le sue inchieste sulla crisi della scuola e sul traffico di droga. Il suo ultimo libro è Flat earth news (Chatto & Windus 2008).

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Versione in inglese.

 

It was just before midnight when the first police officer hit Mark Covell, swiping his truncheon down on his left shoulder. Covell did his best to yell out in Italian that he was a journalist but, within seconds, he was surrounded by riot-squad officers thrashing him with their sticks. For a while, he managed to stay on his feet but then a baton blow to the knee sent him crashing to the pavement.

 

Lying on his face in the dark, bruised and scared, he was aware of police all around him, massing to attack the Diaz Pertini school building where 93 young demonstrators were bedding down on the floor for the night. Covell’s best hope was that they would break through the chain around the front gates without paying him any more attention. If that happened, he could get up and limp across the street to the safety of the Indymedia centre, where he had spent the past three days filing reports on the G8 summit and on its violent policing.

 

It was at that moment that a police officer sauntered over to him and kicked him in the chest with such force that the entire lefthand side of his rib cage caved in, breaking half-a-dozen ribs whose splintered ends then shredded the membrane of his left lung. Covell, who is 5ft 8in and weighs less than eight stone, was lifted off the pavement and sent flying into the street. He heard the policeman laugh. The thought formed in Covell’s mind: “I’m not going to make it.”

 

The riot squad were still struggling with the gate, so a group of officers occupied the time by strolling over to use Covell as a football. This bout of kicking broke his left hand and damaged his spine. From somewhere behind him, Covell heard an officer shout that this was enough – “Basta! Basta!” – and he felt his body being dragged back on to the pavement.

 

Now, an armoured police van broke through the school gates and 150 police officers, most wearing crash helmets and carrying truncheons and shields, poured into the defenceless building. Two officers stopped to deal with Covell: one cracked him round the head with his baton; the other kicked him several times in the mouth, knocking out a dozen teeth. Covell passed out.

 

There are several good reasons why we should not forget what happened to Covell, then aged 33, that night in Genoa. The first is that he was only the beginning. By midnight on July 21 2001, those police officers were swarming through all four floors of the Diaz Pertini building, dispensing their special kind of discipline to its occupants, reducing the makeshift dormitories to what one officer later described as “a Mexican butcher’s shop”. They and their colleagues then illegally incarcerated their victims in a detention centre, which became a place of dark terror.

 

The second is that, seven years later, Covell and his fellow victims are still waiting for justice. On Monday, 15 police, prison guards and prison medics finally were convicted for their part in the violence – although it emerged yesterday that none of them would actually serve prison terms. In Italy, defendants don’t go to jail until they have exhausted the appeals process; and in this case, the convictions and sentences will be wiped out by a statute of limitations next year. Meanwhile, the politicians who were responsible for the police, prison guards and prison medics have never had to explain themselves. Fundamental questions about why this happened remain unanswered – and they hint at the third and most important reason for remembering Genoa. This is not simply the story of law officers running riot, but of something uglier and more worrying beneath the surface.

 

The fact that this story can be told at all is testament to seven years of hard work, led by a dedicated and courageous public prosecutor, Emilio Zucca. Helped by Covell as well as his own staff, Zucca has gathered hundreds of witness statements and analysed 5,000 hours of video as well as thousands of photographs. Pieced together, they tell an irrefutable tale, which began to unfold as Covell lay bleeding on the ground.

 

The police poured into the Diaz Pertini school. Some of them were shouting “Black Bloc! We’re going to kill you,” but if they genuinely believed they were confronting the notorious Black Bloc of anarchists who had caused violent mayhem in parts of the city during demonstrations earlier in the day, they were mistaken. The school had been provided by the Genoa city council as a base for demonstrators who had nothing to do with the anarchists: they had even posted guards to make sure that none of them came in.

 

One of the first to see the riot squad bursting in was Michael Gieser, a 35-year-old Belgian economist, who subsequently described how he had just changed into his pyjamas and was queuing for the bathroom with his toothbrush in his hand when the raid began. Gieser believes in the power of dialogue and, at first, he walked towards them saying, “We need to talk.” He saw the padded jackets, the riot clubs, the helmets and the bandanas concealing the policemen’s faces, changed his mind and ran up the stairs to escape.

 

Others were slower. They were still in their sleeping bags. A group of 10 Spanish friends in the middle of the hall woke up to find themselves being battered with truncheons. They raised their hands in surrender. More officers piled in to beat their heads, cutting and bruising and breaking limbs, including the arm of a 65-year-old woman. At the side of the room, several young people were sitting at computers, sending emails home. One of them was Melanie Jonasch, a 28-year-old archaeology student from Berlin, who had volunteered to help out in the building and had not even been on a demonstration.

 

She still cannot remember what happened. But numerous other witnesses have described how officers set upon her, beating her head so hard with their sticks that she rapidly lost consciousness. When she fell to the ground, officers circled her, beating and kicking her limp body, banging her head against a near-by cupboard, leaving her finally in a pool of blood. Katherina Ottoway, who saw this happen, recalled: “She was trembling all over. Her eyes were open but upturned. I thought she was dying, that she could not survive this.”

 

None of those who stayed on the ground floor escaped injury. As Zucca later put it in his prosecution report: “In the space of a few minutes, all the occupants on the ground floor had been reduced to complete helplessness, the groans of the wounded mingling with the sound of calls for an ambulance.” In their fear, some victims lost control of their bowels. Then the officers of the law moved up the stairs. In the first-floor corridor they found a small group, including Gieser, still clutching his toothbrush: “Someone suggested lying down, to show there was no resistance. So I did. The police arrived and began beating us, one by one. I protected my head with my hands. I thought, ‘I must survive.’ People were shouting, ‘Please stop.’ I said the same thing … It made me think of a pork butchery. We were being treated like animals, like pigs.”

 

Officers broke down doors to the rooms leading off the corridors. In one, they found Dan McQuillan and Norman Blair, who had flown in from Stansted to show their support for, as McQuillan put it, “a free and equal society with people living in harmony with each other”. The two Englishmen and their friend from New Zealand, Sam Buchanan, had heard the police attack on the ground floor and had tried to hide their bags and themselves under some tables in the corner of the dark room. A dozen officers broke in, caught them in a spotlight and, even as McQuillan stood up with his hands raised saying, “Take it easy, take it easy,” they battered them into submission, inflicting numerous cuts and bruises and breaking McQuillan’s wrist. Norman Blair recalled: “I could feel the venom and hatred from them.”

 

Gieser was out in the corridor: “The scene around me was covered in blood, everywhere. A policeman shouted ‘Basta!’. This word was like a window of hope. I understood it meant ‘enough’. And yet they didn’t stop. They continued with pleasure. In the end, they did stop, but it was like taking a toy away from a child, against their will.”

 

By now, there were police officers on all four floors of the building, kicking and battering. Several victims describe a sort of system to the violence, with each officer beating each person he came across, then moving on to the next victim while his colleague moved up to continue beating the first. It seemed important that everybody must be hurt. Nicola Doherty, 26, a care worker from London, later described how her partner, Richard Moth, lay across her to protect her: “I could just hear blow after blow on his body. The police were also leaning over Rich so they could hit the parts of my body which were exposed.” She tried to cover her head with her arm: they broke her wrist.

 

In one corridor, they ordered a group of young men and women to kneel, the easier to batter them around the head and shoulders. This was where Daniel Albrecht, a 21-year-old cello student from Berlin, had his head beaten so badly that he needed surgery to stop bleeding in his brain. Around the building, officers flipped their batons around, gripping the far end and using the right-angled handle as a hammer.

 

And in among this relentless violence, there were moments when the police preferred humiliation: the officer who stood spread-legged in front of a kneeling and injured woman, grabbed his groin and thrust it into her face before turning to do the same to Daniel Albrecht kneeling beside her; the officer who paused amid the beatings and took a knife to cut off hair from his victims, including Nicola Doherty; the constant shouting of insults; the officer who asked a group if they were OK and who reacted to the one who said “No” by handing out an extra beating.

 

A few escaped, at least for a while. Karl Boro made it up on to the roof but then made the mistake of coming back into the building, where he was treated to heavy bruising to his arms and legs, a fractured skull, and bleeding in his chest cavity. Jaraslaw Engel, from Poland, managed to use builders’ scaffolding to get out of the school, but he was caught in the street by some police drivers who smashed him over the head, laid him on the ground and stood over him smoking while his blood ran out across the Tarmac.

 

Two of the last to be caught were a pair of German students, Lena Zuhlke, 24, and her partner Niels Martensen. They had hidden in a cleaners’ cupboard on the top floor. They heard the police approaching, drumming their batons against the walls of the stairs. The cupboard door came open, Martensen was dragged out and beaten by a dozen officers standing in a semicircle around him. Zuhlke ran across the corridor and hid in the loo. Police officers saw her and followed her and dragged her out by her dreadlocks.

 

In the corridor, they set about her like dogs on a rabbit. She was beaten around the head then kicked from all sides on the floor, where she felt her rib cage collapsing. She was hauled up against the wall where one officer kneed her in the groin while others carried on lashing her with their batons. She slid down the wall and they hit her more on the ground: “They seemed to be enjoying themselves and, when I cried out in pain, it seemed to give them even more pleasure.”

 

Police officers found a fire extinguisher and squirted its foam into Martensen’s wounds. His partner was dragged by her hair and tossed down the stairs head-first. Eventually, they dragged Zuhlke into the ground-floor hall, where they had gathered dozens of prisoners from all over the building in a mess of blood and excrement. They threw her on top of two other people. They were not moving, and Zuhlke drowsily asked them if they were alive. They did not reply, and she lay there on her back, unable to move her right arm, unable to stop her left arm and her legs twitching, blood seeping out of her head wounds. A group of police officers walked by, and each one lifted the bandana which concealed his identity, leaned down and spat on her face.

 

Why would law officers behave with such contempt for the law? The simple answer may be the one which was soon being chanted outside the school building by sympathetic demonstrators who chose a word which they knew the police would understand: “Bastardi! Bastardi!” But something else was happening here – something that emerged more clearly over the next few days.

 

Covell and dozens of other victims of the raid were taken to the San Martino hospital, where police officers walked up and down the corridors, slapping their clubs into the palms of their hands, ordering the injured not to move around or look out of the window, keeping handcuffs on many of them and then, often with injuries still untended, shipping them across the city to join scores of others, from the Diaz school and from the street demonstrations, detained at the detention centre in the city’s Bolzaneto district.

 

The signs of something uglier here were apparent first in superficial ways. Some officers had traditional fascist songs as ringtones on their mobile phones and talked enthusiastically about Mussolini and Pinochet. Repeatedly, they ordered prisoners to say “Viva il duce.” Sometimes, they used threats to force them to sing fascist songs: “Un, due, tre. Viva Pinochet!”

 

The 222 people who were held at Bolzaneto were treated to a regime later described by public prosecutors as torture. On arrival, they were marked with felt-tip crosses on each cheek, and many were forced to walk between two parallel lines of officers who kicked and beat them. Most were herded into large cells, holding up to 30 people. Here, they were forced to stand for long periods, facing the wall with their hands up high and their legs spread. Those who failed to hold the position were shouted at, slapped and beaten. Mohammed Tabach has an artificial leg and, unable to hold the stress position, collapsed and was rewarded with two bursts of pepper spray in his face and, later, a particularly savage beating. Norman Blair later recalled standing like this and a guard asking him “Who is your government?” “The person before me had answered ‘Polizei’, so I said the same. I was afraid of being beaten.”

 

Stefan Bauer dared to answer back: when a German-speaking guard asked where he was from, he said he was from the European Union and he had the right to go where he wanted. He was hauled out, beaten, given a face full of pepper spray, stripped naked and put under a cold shower. His clothes were taken away and he was returned to the freezing cell wearing only a flimsy hospital gown.

 

Shivering on the cold marble floors of the cells, the detainees were given few or no blankets, kept awake by guards, given little or no food and denied their statutory right to make phone calls and see a lawyer. They could hear crying and screaming from other cells.

 

Men and women with dreadlocks had their hair roughly cut off to the scalp. Marco Bistacchia was taken to an office, stripped naked, made to get down on all fours and told to bark like a dog and to shout “Viva la polizia Italiana!” He was sobbing too much to obey. An unnamed officer told the Italian newspaper La Repubblica that he had seen brother officers urinating on prisoners and beating them for refusing to sing Faccetta Nera, a Mussolini-era fascist song.

 

Ester Percivati, a young Turkish woman, recalled guards calling her a whore as she was marched to the toilet, where a woman officer forced her head down into the bowl and a male jeered “Nice arse! Would you like a truncheon up it?” Several women reported threats of rape, anal and vaginal.

 

Even the infirmary was dangerous. Richard Moth, covered in cuts and bruises after lying on top of his partner, was given stitches in his head and legs without anaesthetic – “an extremely painful and disturbing experience. I had to be held down.” Prison medical staff were among those convicted of abuse on Monday.

 

All agree that this was not an attempt to get the detainees to talk, simply an exercise in creating fear. And it worked. In statements, prisoners later described their feeling of helplessness, of being cut off from the rest of the world in a place where there was no law and no rules. Indeed, the police forced their captives to sign statements, waiving all their legal rights. One man, David Larroquelle, testified that he refused and had three of his ribs broken. Percivati also refused and her face was slammed into the office wall, breaking her glasses and making her nose bleed.

 

The outside world was treated to some severely distorted accounts of all this. Lying in San Martino hospital the day after his beating, Covell came round to find his shoulder being shaken by a woman who, he understood, was from the British embassy. It was only when the man with her started taking photographs that he realised she was a reporter, from the Daily Mail. Its front page the next day ran an entirely false report describing him as having helped mastermind the riots. (Four long years later, the Mail eventually apologised and paid Covell damages for invasion of privacy.)

 

While his citizens were being beaten and tormented in illegal detention, spokesmen for the then prime minister, Tony Blair, declared: “The Italian police had a difficult job to do. The prime minister believes that they did that job.”

 

The Italian police themselves fed the media with a rich diet of falsehood. Even as the bloody bodies were being carried out of the Diaz Pertini building on stretchers, police were telling reporters that the ambulances lined up in the street were nothing to do with the raid, and/or that the very obviously fresh injuries were old, and that the building had been full of violent extremists who had attacked officers.

 

The next day, senior officers held a press conference at which they announced that everybody in the building would be charged with aggressive resistance to arrest and conspiracy to cause destruction. In the event, the Italian courts dismissed every single attempted charge against every single person. That included Covell. Police attempts to charge him with a string of very serious offences were described by the public prosecutor, Enrico Zucca, as “grotesque”.

 

At the same press conference, police displayed an array of what they described as weaponry. This included crowbars, hammers and nails which they themselves had taken from a builder’s store next to the school; aluminium rucksack frames, which they presented as offensive weapons; 17 cameras; 13 pairs of swimming goggles; 10 pen-knives; and a bottle of sun-tan lotion. They also displayed two Molotov cocktails which, Zucca later concluded, had been found by police earlier in the day in another part of the city and planted in the Diaz Pertini building as the raid ended.

 

This public dishonesty was part of a wider effort to cover up what had happened. On the night of the raid, a force of 59 police entered the building opposite the Diaz Pertini, where Covell and others had been running their Indymedia centre and where, crucially, a group of lawyers had been based, gathering evidence about police attacks on the earlier demonstrations. Officers went into the lawyers’ room, threatened the occupants, smashed their computers and seized hard drives. They also removed anything containing photographs or video tape.

 

With the courts refusing to charge the detainees, the police secured an order to deport all of them from the country, banning them from returning for five years. Thus, the witnesses were removed from the scene. Like the attempted charges, all the deportation orders were subsequently dismissed as illegal by the courts.

 

Zucca then fought his way through years of denial and obfuscation. In his formal report, he recorded that all the senior officers involved were denying playing any part: “Not a single official has confessed to holding a substantial command role in any aspects of the operation.” One senior officer who was videoed at the scene explained that he was off duty and had just turned up to make sure his men were not being injured. Police statements were themselves changeable and contradictory, and were overwhelmingly contradicted by the evidence of victims and numerous videos: “Not a single one of the 150 officers reportedly present has provided precise information regarding an individual episode.”

 

Without Zucca, without the robust stance of the Italian courts, without Covell’s intensive work assembling video records of the Diaz raid, the police might well have evaded responsibility and secured false charges and prison sentences against scores of their victims. Apart from the Bolzaneto trial which finished on Monday, 28 other officers, some very senior, are on trial for their part in the Diaz raid. And yet, justice has been compromised.

 

No Italian politician has been brought to book, in spite of the strong suggestion that the police acted as though somebody had promised them impunity. One minister visited Bolzaneto while the detainees were being mistreated and apparently saw nothing or, at least, saw nothing he thought he should stop. Another, Gianfranco Fini, former national secretary of the neo-fascist MSI party and the then deputy prime minister, was – according to media reports at the time – in police headquarters. He has never been required to explain what orders he gave.

 

Most of the several hundred law officers involved in Diaz and Bolzaneto have escaped without any discipline or criminal charge. None has been suspended; some have been promoted. None of the officers who were tried over Bolzaneto has been charged with torture – Italian law does not recognise the offence. Some senior officers who were originally going to be charged over the Diaz raid escaped trial because Zucca was simply unable to prove that a chain of command existed. Even now, the trial of the 28 officers who have been charged is in jeopardy because the prime minister, Silvio Berlusconi, is pushing through legislation to delay all trials dealing with events that occurred before June 2002. Nobody has been charged with the violence inflicted on Covell. And as one of the victims’ lawyers, Massimo Pastore, put it: “Nobody wants to listen to what this story has to say.”

 

That is about fascism. There are plenty of rumours that the police and carabinieri and prison staff belonged to fascist groups, but no evidence to support that. Pastore argues that that misses the bigger point: “It is not just a matter of a few drunken fascists. This is mass behaviour by the police. No one said ‘No.’ This is a culture of fascism.” At its heart, this involved what Zucca described in his report as “a situation in which every rule of law appears to have been suspended.”

 

Fifty-two days after the attack on the Diaz school, 19 men used planes full of passengers as flying bombs and shifted the bedrock of assumptions on which western democracies had based their business. Since then, politicians who would never describe themselves as fascists have allowed the mass tapping of telephones and monitoring of emails, detention without trial, systematic torture, the calibrated drowning of detainees, unlimited house arrest and the targeted killing of suspects, while the procedure of extradition has been replaced by “extraordinary rendition”. This isn’t fascism with jack-booted dictators with foam on their lips. It’s the pragmatism of nicely turned-out politicians. But the result looks very similar. Genoa tells us that when the state feels threatened, the rule of law can be suspended. Anywhere.

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