“Non è più accettabile che persone instabili e mentalmente disturbate possano detenere legalmente armi da fuoco a causa di leggi che tutelano la privacy dei possessori di armi invece dell’incolumità di famigliari, amici e conoscenti. In Italia è ancora troppo facile ottenere una licenza per armi. Se davvero vogliamo prevenire omicidi e delitti è urgente rivedere le norme a cominciare dalle comunicazioni tra medici, questure e prefetture”.
Ad affermarlo è Gabriella Neri a dieci anni esatti dall’efferato omicidio di suo marito, Luca Ceragioli e di Jan Hilmer, rispettivamente direttore e responsabile amministrativo dell’azienda “Gifas Electric” di Massarosa (Lucca) ad opera dell’ex dipendente Paolo Iacconi.
Quel maledetto giorno
Il 23 luglio 2010, invitato per un colloquio presso l’azienda con cui in passato aveva collaborato, Paolo Iacconi sparò 5 colpi con una pistola regolarmente detenuta con licenza per “uso sportivo” uccidendo all’istante Ceragioli e Hilmer: si rifugiò quindi nei bagni dove si suicidò.
Originario di Sacile (Pordenone), Paolo Iacconi, 51 anni, era notoriamente disturbato psichicamente ed aveva un trascorso di ricoveri ospedalieri per trattamento sanitario obbligatorio (Tso) e tentati suicidi, ma continuava a detenere l’arma in base ad una regolare licenza “per uso sportivo” che non gli è mai stata revocata. Luca Ceragioli, 48 anni, era sposato con Gabriella Neri ed era padre di due figlie, Giulia e Claudia, rispettivamente di 20 e 21 anni. Jan Hilmer, il marito di Elisa Pierotti, era originario di Lubecca in Germania e risiedeva a Lucca. Da poco più di un mese era diventato padre di un bambino, Tommaso.
“Da otto anni l’associazione Ognivolta onlus – familiari e amici di Luca e Jan”, che è stata fondata a seguito di quella terribile tragedia, chiede la revisione della legge sulla detenzione delle armi da fuoco ed in particolare l’introduzione di norme per prevenire illeciti, come la tempestiva comunicazione alle questure e prefetture da parte del medico curante e delle Asl nei casi in cui il legale detentore di armi divenga affetto da problemi psicologici o sia sottoposto a trattamenti che ne alterano lo stato mentale» – afferma Gabriella Neri, presidente dell’associazione.
Secondo la legge attuale, infatti, i controlli medici per le varie licenze per armi vengono effettuati solo ogni cinque anni: un periodo in cui, possono verificarsi problemi psichici e mentali, che però né il medico curante, né le Asl possono comunicare alle autorità competenti, permettendo di fatto al possessore di licenza di continuare a detenere le armi. “Dobbiamo purtroppo constatare che, nonostante in questi anni siano stati presentati diversi disegni di legge, le norme sono rimaste pressoché invariate ed anzi l’accesso legale alle armi è stato addirittura reso più facile”.
Nel corso di questi anni diversi parlamentari si sono interfacciati con l’associazione Ognivolta onlus per presentare disegni di legge riguardo alla detenzione di armi. Tra questi ricordiamo il Disegno di Legge n. 583, d’iniziativa delle senatrici Manuela Granaiola e Silvana Amati, “Modifiche alla normativa per la concessione del porto d’armi e per la detenzione di armi comuni da sparo e per uso sportivo”, comunicato il 30 aprile 2013 alla Presidenza del Senato della Repubblica. Nella legislatura in corso è stato depositato il 4 aprile 2019 al Senato dai senatori Mattia Crucioli e Gianluca Ferrara, il Disegno di Legge n. 1211, “Istituzione della banca dati centrale informatizzata per i soggetti detentori di armi o in possesso del porto d’armi” che contempla, fra i vari punti, l’istituzione di un’anagrafe informatizzata per il collegamento fra le strutture sanitarie e le autorità preposte al rilascio e al rinnovo del porto d’armi, affinché si possa tempestivamente rifiutare o revocare il medesimo a soggetti psichicamente non idonei. L’Associazione Ogni volta onlus sostiene questo disegno di legge e chiede che venga esaminato ed approvato il più presto possibile.
Come, invece, purtroppo dimostrano i tre casi di omicidio (femminicidio) e suicidio che si sono succeduti la scorsa settimana a Borgotaro (Parma), Aprilia (Latina) e Carmagnola (Torino), le armi legalmente detenute sono lo strumento più usato per commettere omicidi di famigliari, parenti e conoscenti. Un ampio studio pubblicato lo scorso anno dall’istituto Ricerche Economiche e Sociali Eures dal titolo “Rapporto su caratteristiche, dinamiche e profili di rischio dell’omicidio in famiglia”, documenta che le armi da fuoco sono lo strumento più frequentemente utilizzato anche negli omicidi nell’ambito di prossimità.
Popolo armato
Se agli italiani che hanno una regolare licenza si aggiungono gli operatori dei corpi di polizia e delle Forze armate, che sono quasi 500.000, abbiamo circa 1,9 milioni di italiani che possiedono regolarmente almeno un’arma da fuoco. Almeno una, perché la normativa stabilisce che, una volta ottenuta la licenza, si possono tenere in casa tre armi da sparo, sei armi ad uso sportivo, un numero illimitato di fucili e carabine, otto armi antiche o artistiche, nonché munizioni e polvere da sparo. Considerando che ogni famiglia italiana è composta in media da 2,3 individui, il conto è presto fatto: ci sono quasi 4,5 milioni di italiani, tra cui oltre 700.000 minori, che hanno un’arma a portata di mano e che, per gioco, per sbaglio, rancore o follia potrebbero essere indotti a sparare e ad uccidere.
L’associazione “Ognivolta onlus – familiari e amici di Luca e Jan” è stata costituita il 23 luglio 2012, due anni dopo l’omicidio di Luca Ceragioli e Jan Hilmer, allo scopo di sostenere i diritti delle vittime di armi da fuoco legalmente detenute e dei loro famigliari, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche relative alla detenzione di armi da fuoco e per promuovere le iniziative, in campo legislativo, medico, culturale e sociale, per prevenirne gli abusi e individuarne i rimedi.
“Dopo la tragedia che ci ha colpito – spiega Gabriella Neri, presidente dell’associazione – ci siamo trovati a riflettere con tanti amici e persone che ci sono state vicine. Abbiamo scoperto insieme che era necessario trasformare il dolore e la rabbia in energie positive e utili anche per altre persone, per fare in modo che delitti come quello che ha visto vittime mio marito e il suo collega non si ripetessero più. La strada non è stata sempre facile e il nostro entusiasmo è stato spesso frenato dallo scoramento nel vedere un mondo che sembra voglia armarsi sempre di più. Ma in questi anni abbiamo conosciuto molte persone e molte realtà che hanno sostenuto e incoraggiato il nostro cammino e a cui siamo davvero grati: i comitati dei familiari delle vittime delle armi da fuoco, i rappresentanti del civismo dedicato a questo problema, i centri studi e di ricerche come l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia, l’istituto Ricerche Economiche e Sociali Eures, scrittori, giornalisti, attori, cantanti persone del mondo dello spettacolo. Ma anche tanti insegnanti e studenti delle scuole incontrati in questi anni. Abbiamo, infatti, sempre voluto confrontarci con tutti e veicolare il nostro messaggio in tanti modi diversi: dagli incontri nelle scuole ad eventi culturali ed artistici, dai momenti di approfondimento, a quelli di intrattenimento attraverso cui abbiamo cercato di coinvolgere un numero sempre maggiore di persone di tutte le età e provenienze sociali. Dopo dieci anni dal dramma che ha colpito la nostra comunità e dopo tutte le altre tragedie che l’hanno preceduta e seguita, auspichiamo una presa di coscienza effettiva da parte di tutta la classe politica, senza distinzioni: deve essere posta fine almeno a quelle morti per arma da fuoco detenuta legalmente da soggetti psichicamente compromessi. Come ha ammonito il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, due anni fa ricordando un fatto tragico di quei giorni ed alla viglia dell’approvazione di norme che hanno reso più facile la detenzione di armi: “L’Italia non può assomigliare al Far West, dove un tale compra un fucile e spara dal balcone colpendo una bambina di un anno, rovinandone la salute e il futuro. Questa è barbarie e deve suscitare indignazione”.
E in un Paese civile quello all’indignazione più che un diritto dovrebbe essere un dovere.