di Marco Cacciari*
L’ultima volta che ho visto Rino, era in canottiera e vangava un orto. Il maglione e la giacca appoggiati alla rete. Era la metà di gennaio del 2010.
Se vieni al bar ti pago un grappino.
È da un po’ che lavoro, un grappino ci vuole.
Appoggia la vanga e si veste.
Al tavolo del bar guarda l’orologio. Lo indica. Mi afferra un braccio.
Fra un po’ sono trent’anni, dice.
Lo guardo perplesso.
Sono trent’anni da quel maledetto due agosto. Lo sai che facevo il pompiere? E lo sai che siamo stati la prima squadra che è arrivata?
Osservo il suo sguardo che si è trasformato.
Non ho mai avuto paura di niente, non mi ha mai fatto schifo niente. Raccogliere gente bruciata in un incendio, tirare fuori uno a pezzi da una macchina, sono tutte cose che fanno parte di questo lavoro. Ma quella mattina, quando siamo arrivati nel piazzale, siamo scesi dal camion e ci siamo messi le mani nei capelli. Quella roba era una cosa che non si poteva neanche immaginare. A mano a mano che la nuvola di polvere calava era sempre peggio. Le urla dei feriti da tutte le parti, i vetri, mi ricordo tanti vetri e la gente, tanta gente che veniva per darci una mano. E la puzza del sangue e delle interiora che entravano anche dalle mascherine. Poi le mascherine si tappavano col sudore e la polvere e le strappavamo e lavoravamo senza. E si rompevano i guanti, si strappavano le divise, e scavavo a mani nude perché volevo tirarne fuori uno vivo ma erano solo morti, morti, e dopo altri morti.
Appoggia la testa fra le braccia e comincia a piangere.
Chiedo un’altra grappa al barista.
Alza la testa e mi punta il dito.
Da quel giorno, tutti gli anni, il 2 Agosto, alle 10.25, io sono in quella piazza, nel punto esatto dove sono sceso dal camion, e piango per tutti quei poveretti che sono rimasti là sotto.
Sì, Rino, tutti quei morti. Fra poco sono quaranta, gli anni, e per fortuna che non ci sei più a sentire che anche con le mascherine, i metri di distanza e i disinfettanti, non ci potresti andare a piangere quei morti.
*librista