Anita, Lisa e quella voglia di scuola che sa di democrazia
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Anita, Lisa e quella voglia di scuola che sa di democrazia

Un'intervista di Antonio Rinaldis alle due ragazze torinesi da venti giorni e più stanno seguendo le lezioni online sedute su due banchi davanti la scuola, per ricordare che cosa è stato sacrificato

Anita e Lisa
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Antonio Rinaldis Modifica articolo

3 Dicembre 2020 - 18.10


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Da venti giorni, giorno più, giorno meno, Anita e Lisa, torinesi, dodici anni portati con coraggio, hanno deciso che la scuola a distanza la vogliono seguire sugli scalini della Scuola Media Italo Calvino, chiusa per covid. All’inizio era una protesta solitaria, da sole in strada e nessuno che le prendesse sul serio, tranne qualche passante, incuriosito dalla voglia di scuola di due ragazzine. E poi c’era la maledetta curva dei contagi che saliva, insieme al numero dei morti, l’emergenza che non ammetteva dissensi. E invece Anita e Lisa hanno voluto testimoniare la speranza, l’amore per la vita, l’ostinazione nella resistenza al male, ed hanno chiesto che la scuola riaprisse. Sembrava una richiesta assurda e invece quell’appello si è diffuso, ha camminato e finalmente anche i più scettici hanno dovuto ascoltare, perché di quella giovinezza così immediata abbiamo tutti un bisogno enorme. Dai social ai giornali, alle interviste televisive, alle audizioni alla Camera, le due ragazzine torinesi hanno infranto il muro dell’indifferenza e sono diventate un caso mediatico.

Le abbiamo incontrate su whatsapp, perché il Piemonte è ancora zona arancione, e dall’incontro è scaturito un segnale di fiducia che vorremmo che diventasse virale.

Apro il microfono e le lascio parlare quasi a ruota libera.
Ero arrabbiata, esordisce Anita, la scuola era chiusa e mi sembrava un’ingiustizia e ho deciso di protestare, anche se ero da sola.

Io l’ho seguita quasi subito, aggiunge Lisa, perché siamo amiche e anch’io volevo tornare a scuola. Nella nostra classe non erano tutti d’accordo, però gli insegnanti ci hanno sostenuti. E poi pensavo agli invisibili, ai nostri coetanei che vivono nelle periferie, non hanno il computer e neppure una famiglia che li sostiene. Mi sono detta che a quei ragazzi non ci pensava nessuno. É cominciata così. Sono oramai una ventina di giorni che ci troviamo con Anita fuori dalla scuola; all’inizio ci sedevamo sui gradini con il nostro pc e seguivamo le lezioni a distanza, poi abbiamo portato dei banchi da casa e li abbiamo sistemati vicino al Gioberti, che è un liceo vicino alla nostra scuola media. Le persone che ci vedono per strada ci sostengono e ci aiutano, c’è chi porta del cibo, dei regali, libri, ma qualcuno ci attacca e vorrebbe che tornassimo a casa, che piovesse per toglierci dalla strada, ma sono pochi. Sono molti di più quelli che ci insultano sui social, ma noi non rispondiamo e non vogliamo dare peso. Ho detto che i nostri insegnanti ci hanno appoggiate, mentre la preside ha scritto una circolare nella quale ci ha voluto ricordare che le regole vanno rispettate e che con il nostro comportamento stavamo violando delle leggi che ha assunto il Governo per tutelare la nostra salute.
Il racconto di Lisa si interrompe. Anita riprende, come se avessero un accordo segreto.
Dopo qualche giorno, attacca Anita, anche una studentessa del Liceo Gioberti, Maia, ha deciso di fare la stessa cosa, ma la preside della sua scuola ha scritto una circolare molto più restrittiva, nella quale avvertiva che la didattica a distanza si deve fare soltanto nella propria abitazione e che gli studenti che non si collegano da casa vanno considerati assenti e vanno disconnessi. Dopo le polemiche che si sono scatenate la Preside del Gioberti si è giustificata, affermando che “gli spostamenti sono vietati” e che comunque il provvedimento era rivolto a garantire la sicurezza degli studenti.
Anita e Lisa prendono fiato. Fanno gli occhi piccoli per sbirciare nello schermo del telefono. Credo che mi stiano studiando.
Ma siamo proprio sicuri che andare a scuola fosse così divertente? Provo a insinuare, ma la riposta è perentoria. 

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La scuola è prima di tutto un diritto, replicano quasi con la stessa voce, che in questo momento non viene garantito a tutti, noi ci stavamo bene, anche se non tutte le materie sono così interessanti, però la nostra scuola è bella e confortevole ed era piacevole andarci. E poi una cosa ci teniamo a dirla: non è vero che la scuola è pericolosa, può essere un posto molto sicuro se rispettiamo le regole sulla distanza, teniamo le finestre aperte e ci laviamo le mani.

Vi aspettavate tanto interesse?

Si guardano come per accordarsi e poi parla Lisa.

Ci ha sorprese il clamore, l’attenzione, non ce l’aspettavamo; persino il Ministro Azzolina ha chiamato Anita, ha garantito il suo impegno per la riapertura e ci ha fatto i complimenti. Siamo molto orgogliose della nostra protesta e speriamo che altri la seguano; qualche giorno fa c’è stato persino un flash mob davanti alla Regione Piemonte.

Qualcuno potrebbe accusarvi di negazionismo, chiedo, e la domanda sembra spiazzarle, ma è solo un momento.

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È evidente che il virus esiste ed è pericoloso, spiega Anita, ma non tutti ne parlano con la giusta misura e così si rischia di alimentare il panico e di fare del terrorismo mediatico. E poi siamo così sicuri che siano i ragazzi a trasmettere il contagio ai genitori e ai nonni?

La domanda rimane sospesa per aria e dopo qualche secondo il volto delle due ragazze si illumina. L’altro giorno, dice Anita, ci siamo collegate con la Presidente della Commissione Cultura, Vittoria Casa, e c’era anche Maia insieme ad altri studenti delle superiori. Ci eravamo preparate un discorso, perché non volevamo dimenticare niente. Io ho parlato della scuola come un luogo sicuro e Lisa ha voluto ricordare i ragazzi che non riescono a seguire la didattica a distanza, per mancanza di spazi, di strumenti e anche perché le loro famiglie non possono assisterli anche dal punto di vista culturale. É stato un momento molto emozionante, perché nessun minorenne aveva mai parlato alla Camera dei Deputati. La Presidente Casa ci ha assicurato il suo appoggio e ha detto che avrebbe parlato con i presidi delle nostre scuole.

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C’è dell’altro? Chiedo.

C’è che le scuole devono essere riaperte, ribadiscono Anita e Lisa, al più presto, perché tra noi giovani si sta diffondendo un problema psicologico che pochi prendono sul serio. Si tratta della sindrome della capanna, che è la paura di uscire di casa, come conseguenza della chiusura di tutte le possibilità di avere una vita sociale e umana normale e libera. Per questo non si tratta soltanto di riaprire le scuole, ma anche di uscire dalle nostre zone di comfort per incontrare e incontrarsi, accettando il rischio che la vita, ogni vita porta con sé.

In appendice occorre ricordare che da qualche giorno il Piemonte è diventato zona arancione e quindi, secondo i parametri indicati dal Governo, Anita e Lisa avrebbero potuto rientrare a scuola, ma il Presidente della Regione Cirio ha ritenuto di rinviare l’apertura per non ripetere gli errori del passato.

Ho ripensato alle due ragazze che ogni mattina si svegliano, si preparano e, ostinatamente, ci ricordano che le scuole chiuse sono uno sfregio alla democrazia. E l’inverno è arrivato…

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