“Noi sappiamo, e abbiamo le prove”: Pinelli e la strage di piazza Fontana 50 anni dopo
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“Noi sappiamo, e abbiamo le prove”: Pinelli e la strage di piazza Fontana 50 anni dopo

Tante cose sono state scoperte sulla strategia della tensione. Ma la verità, quella vera, sulla morte del ferroviere anarchico resta in un cono d'ombra.

Giuseppe Pinelli
Giuseppe Pinelli
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

15 Dicembre 2020 - 09.13


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Mercoledì 4 dicembre 2019, Roma, Università La Sapienza. L’aula è gremita di studenti, e non solo: il pubblico è picchiettato di volti vissuti. Dietro una cattedra, si alternano storici, avvocati, magistrati, giornalisti, rappresentanti dell’Associazione delle vittime della strage di piazza Fontana. È di questo che si parla. Ancora una volta. L’ennesima. La giornata di studi dedicata alla madre di tutte le stragi italiane, organizzata dall’Archivio Flamigni e dall’Associazione Piazza Fontana 12 dicembre 69, reca un titolo pasoliniano: “Noi sappiamo, e abbiamo le prove”.


Sono trascorse più di tre ore, gli oratori, numerosi, si sono avvicendati, ognuno con le sue verità, ognuno con i propri dubbi. Quand’ecco, dalla platea una voce chiede la parola. L’ultimo conferenziere ha terminato il suo intervento, all’anonimo personaggio viene concesso di parlare.


E lui non si fa pregare. Pone una domanda, semplice, diretta, quasi innocente. La domanda è rivolta a Benedetta Tobagi, in quel momento assisa dietro la cattedra. “Volevo sapere” risuona la voce flebile eppure ferma, “perché lei dice che Calabresi non era nella stanza quando hanno assassinato Giuseppe Pinelli”. Pausa. Un glaciale imbarazzo si propaga nell’aula. Chi è costui? “Quale motivazione ha per asserire questo?” prosegue la voce, calma ma imperterrita. “Era lì? Ne ha parlato con qualcuno? Quali motivi ha per dire questo?”


Quella voce, che con la sua domanda insistente ha spezzato il pigro rituale dei convegni, fatto di olimpici interventi, di parole forbite, di narcise egomanie, quella voce appartiene a Pasquale “Lello” Valitutti, l’anarchico che la sera del 15 dicembre 1969, allora ventenne, si trovava in una sala al quarto piano della questura milanese. Era seduto, rimasto solo. Il suo amico Giuseppe Pinelli era stato condotto nella stanza del commissario Calabresi, gli altri fermati erano stati rilasciati. Attendeva che Pinelli uscisse dalla stanza del commissario Calabresi, la notte che Pinelli ne uscì dalla finestra.


Benedetta Tobagi tentenna. Ancora ignora chi sia costui. Poi, esitante, accenna una risposta. La sua affermazione l’ha ripresa dagli atti giudiziari, dalle indagini, dalle ricostruzioni, si giustifica.
Ma Valitutti la incalza. Si lancia in un lungo monologo, con la voce rotta dall’indignazione, un’indignazione ingrossata da cinquanta anni di frustrata ricerca della verità. E ripete quello che ha sempre sostenuto.
Valitutti sostiene che dal posto in cui si trovava, in quel maledetto commissariato, vedeva perfettamente le due porte, quella dell’ufficio del dottor Allegra, il capo della sezione politica della questura, e quella dell’ufficio del commissario Calabresi.


Valitutti sostiene che 15-20 minuti prima della mezzanotte il silenzio di quel luogo venne rotto da rumori provenienti dall’ufficio di Calabresi: un trambusto, una rissa, rumore di mobili smossi, di esclamazioni soffocate. Poi, di nuovo, un gelido silenzio.
Valitutti sostiene che nei minuti precedenti quel trambusto nessuno era uscito dall’ufficio di Calabresi, e che nessuno era entrato in quello di Allegra.
Valitutti sostiene che verso la mezzanotte udì “un tonfo, che non ho più dimenticato e che spesso mi rimbomba”. E dopo, uno smuoversi di sedie, di passi precipitosi.
Valitutti dichiara che due sbirri si sono precipitati su di lui e lo hanno messo con la faccia al muro, che dopo qualche attimo è arrivato Calabresi e gli ha detto: “Stavamo parlando tranquillamente, non capisco perché si è buttato”.
Valitutti ha raccontato che la mattina seguente quella notte d’incubo venne rilasciato, e dice di aver ripetuto questa sua testimonianza al processo Calabresi-Lotta Continua, ma che non venne controinterrogato dal difensore di Calabresi.
Valitutti sostiene che durante il sopralluogo nella questura stabilito dal magistrato inquirente mostrò al giudice Biotti i segni sulla parete che dimostravano come una macchina distributrice fosse stata spostata, per far credere che ostruisse la sua vista la notte che Pinelli cadde dalla finestra: cioè che lui, Valitutti, da dove si trovava non poteva vedere alcunché.
Valitutti dichiara che il giudice D’ Ambrosio, che sostituì nel processo il ricusato Biotti, non lo chiamò mai a testimoniare, benché fosse l’unico testimone civile presente quella tragica sera.
Valitutti dichiara, con voce rotta dall’emozione, che Calabresi e coloro che erano presenti in quella stanza sono “tutti assassini di Pinelli”, che hanno tutti mentito, che la “beatificazione” di Calabresi è un’indecenza.
Benedetta Tobagi riprende a fatica la parola. Adesso è più sicura, argomenta con decisione che la presenza di almeno dieci funzionari dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno nella questura milanese può confermare che Calabresi fosse uscito dalla sua stanza, per andare non da Allegra ma da Silvano Russomanno, capo di quegli uomini. Valitutti però non si arrende: Calabresi affermò di essere uscito dal suo ufficio per andare da Allegra, dunque ha mentito. Tutti, in questo affare, hanno mentito, chiosa la Tobagi. Nell’aula ritorna la calma. Ma quelle domande, quelle accorate parole, echeggiano sinistre: un monito per tutti.
La Tobagi ha giustamente posto l’accento sull’ultima, più rilevante acquisizione dell’indagine sulla morte di Pinelli: la presenza nella questura milanese di un manipolo di funzionari dell’Uaar, l’Ufficio Affari Riservati dipendente dal Ministero dell’Interno con compiti di intelligence e di controllo politico nazionale – con a capo Federico Umberto D’Amato -, fondatamente sospettato di aver fornito appoggio e copertura ai responsabili delle numerose stragi che hanno insanguinato il Paese, di averne sistematicamente depistato le indagini. Quegli uomini erano giunti da Roma, ed erano guidati dal vice di D’Amato, Silvano Russomanno.
Questa notizia è di pubblico dominio da sei anni. Lo venimmo a sapere nel 2013, quando uscì un libretto, “E a finestra c’è la morti” (Editore Zero in condotta). Tre anni dopo, nel 2016, arricchito di nuovi documenti, venne ripubblicato col titolo “Pinelli. La finestra è ancora aperta” (Colibrì Edizioni). Gli autori erano il docente universitario Enrico Maltini (deceduto nel marzo del 2016), che da quel giorno infausto non aveva mai smesso di dedicarsi a Pinelli, e Gabriele Fuga, un penalista.


Dunque, per un cinquantennio si è discusso, denunciato, indagato e giudicato (si fa per dire) su cosa accadde la notte del 15 dicembre 1969 nella questura di Milano. E lo si è fatto senza tener conto della presenza nel commissariato, quella notte, della decina e forse più di uomini dell’Uaar, di Russomanno, della famigerata “squadra 54”, i depistatori di stato.
“Noi sappiamo, e abbiamo le prove”, recitava la giornata di studi sulla strage di piazza Fontana che si è tenuta all’Università di Roma La Sapienza il 4 dicembre 2019.
Bene, e ora?

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