Muore per Covid al Policlinico: rubati tutti gli effetti personali. La famiglia: "Un insulto"
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Muore per Covid al Policlinico: rubati tutti gli effetti personali. La famiglia: "Un insulto"

L'uomo era sposato da 58 anni, parla la moglie: "Spariti una collanina d’oro, un antico telefonino, l’orologio che il portava sempre al polso, perché era stato l’orologio di suo padre"

Furto degli oggetti personali in ospedale
Furto degli oggetti personali in ospedale
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15 Gennaio 2021 - 10.53


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E’ morto per Covid al Policlinico, il 21 novembre scorso il signor O., 77 anni, dopo una decina di giorni di ricovero.

Sua moglie, signora R., compagna di una vita, è bloccata nella loro casa. Stavano insieme da quando erano ragazzini, non ancora maggiorenni.

S’è ammalata anche lei di Covid e, senza poter vedere i figli per il rischio di contagio, con la continua angoscia d’aggravarsi, da sola, ha dovuto ascoltare le notizie sulla salute di suo marito, peggiori di giorno in giorno.

E poi ha aspettato, con un’ansia sommata allo smarrimento e al dolore, alla debolezza e gli strascichi della malattia, che dall’ospedale le restituissero ciò che il linguaggio della burocrazia definisce «effetti personali»: e dunque la fede di matrimonio, una collanina d’oro, un antico telefonino, l’orologio che il signor O. portava sempre al polso, perché era stato l’orologio di suo padre.

E invece di suo marito, dopo due anni di fidanzamento agli inizi degli anni Sessanta, seguiti da 58 anni di matrimonio, non le hanno restituito niente. Perché niente s’è più trovato, nella stanza dell’ospedale in cui vengono sistemati gli averi dei pazienti ricoverati. Tutto «scomparso». O meglio, rubato.

Il coronavirus sta investendo da quasi un anno la città con disastri umani che si sommano uno sull’altro, e le vittime provano ad accettare in qualche modo il destino stabilito dalla malattia: «Mi hanno detto che mio padre non sarebbe stato intubato perché troppo anziano e in condizioni troppo gravi, e questo lo posso capire — racconta il figlio del signor O. — Quello che invece non posso sopportare è l’insulto. Il valore economico delle cose di mio padre non interessa. Che però mia madre e noi figli non possiamo riavere le sue cose, quelle che aveva addosso quando è salito in ambulanza, non può essere definito in altro modo. Un insulto».

Il Corriere conosce i dettagli anagrafici del signor O., che non pubblica per richiesta della famiglia. Persone perbene, lavoratori, che pur nella sofferenza vogliono raccontare la loro estrema gratitudine per chi è stato loro vicino, a partire dai medici e gli infermieri dello stesso Policlinico, «che hanno dimostrato un’umanità profonda, andata ben oltre i loro doveri professionali». E poi chi si era occupato prima dei due genitori malati, fin dal giorno in cui hanno iniziato ad avere la febbre. Perché il medico di famiglia, ad esempio, «pur se è una bravissima persona», non è mai andato a visitarli; però una dottoressa del reparto Covid di un altro ospedale milanese, amica di conoscenti di famiglia, «per quattro volte dopo il suo massacrante turno di lavoro è andata a casa dei nostri genitori per una visita».

Fu lei a chiedere un esame del sangue, che in quel momento sembrava impossibile fare, perché nessun laboratorio «accettava» un anziano col Covid: però un medico alla fine ha passato «sotto banco» due provette a uno dei figli e un infermiere, altro conoscente, è andato a fare il prelievo per poi poter consegnare il sangue per l’esame privato.

«Queste persone non avevano alcun obbligo verso di noi, l’hanno fatto per il buon cuore che in questi tempi neri va in soccorso di chi è in difficoltà — racconta ancora uno dei figli del signor O. — Si vestivano come “palombari” sul pianerottolo, fuori casa dei miei genitori».

Alla fine, dopo una settimana dall’accertamento della positività il signor O. ha dovuto essere ricoverato, perché l’ossigenazione nel sangue peggiorava di ora in ora.

«Dopo dieci giorni dal decesso di mio padre, l’Ats ha chiamato per chiedere se avesse fatto un nuovo tampone. E per un’altra decina di giorni hanno continuato a telefonare».

Erano gli stessi giorni in cui, dopo la cremazione, i figli del signor O. hanno iniziato a chiedere i suoi oggetti all’ospedale, nella speranza di poterli consegnare alla madre.

Già sapevano che avrebbero dovuto attendere almeno dieci giorni, «perché ci hanno spiegato che tutto viene messo nei sacchi; che c’è il rischio di contaminazione; che ci sono normali tempi d’attesa. Noi abbiamo fatto la prima richiesta al tredicesimo giorno».

Cosa è accaduto dopo, lo racconta la signora R.: «Positiva al virus, debilitata, scioccata per la scomparsa del compagno di una vita, l’altro giorno ho detto ai miei figli che sarei andata io in ospedale per il ritiro degli effetti personali del sig. O., uomo onestissimo, grande lavoratore, mio marito e loro papà. Allora mi hanno confessato che non c’era più niente, era sparito tutto; sciacalli/avvoltoi in azione al Policlinico, una delle eccellenze milanesi, avevano rubato, depredato, portato via tutto. Il tutto comprende: oggetti di valore e sentimenti di amore legati a un uomo, padre e marito esemplare».

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