Le terribili immagini del pestaggio hanno fatto il giro del mondo, e la verità che emerge è ancora più cruda di quel che si sapeva fino adesso: tutti erano a conoscenza del pestaggio, ma è stato fatto di tutto per coprirlo.
Chi ha pestato, chi ha osservato senza fare niente e chi ha comandato.
Nei fatti di Santa Maria Capua Vetere i livelli di responsabilità sono almeno tre. In quell’atto che per il gip fu una rappresaglia contro i detenuti che avevano ‘osato’ rivoltarsi perché spaventati dall’ingresso del Covid anche nel penitenziaria sono tanti i nomi e i volti che entrano in gioco e, la catena è ben più estesa di quella che appare dalle immagini del video delle violenze.
A essere coinvolta, in vario modo, è tutta la catena di comando. Dal vertice delle carceri campane fino alla struttura centrale.
Non tutti volevano che quella perquisizione diventasse una mattanza, questo pare emergere dalle carte. Ma che qualcosa sia sfuggito di mano è evidente.
Scelte e assunzioni di responsabilità quanto meno sfuggite di mano. Agli atti non a caso figurano anche le chat estrapolate tra Fullone e l’allora direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dello Stato, Francesco Basentini ( prima che il capo del Dap venisse travolto dalle scarcerazioni di alcuni padrini mafiosi, causa Covid).
“Hai fatto benissimo”, risponde Basentini a Fullone che lo informa della perquisizione in corso e la definisce il “segnale forte di cui il personale aveva bisogno”.
“Buona sera capo – gli scrive lui, nel fatidico 6 aprile – è in corso perquisizione straordinaria con 150 unità provenienti dai nuclei regionali (oltre al personale dell’Istituto)… Era il minimo per riprendersi l’Istituto… ”. Basentini approva.
Le indagini dovranno andare oltre e ricostruire pezzo per pezzo ogni tassello di verità.
Le violenze di Santa Maria Capua Vetere sono diventate note, e la diffusione del video implica il fatto che nessuno le possa negare, ma gli abusi di potere corrono nei penitenziari italiani.
A San Gimignano, ad esempio, dieci agenti sono stati condannati per tortura qualche mese fa. Ma, anche in questo caso, si tratta solo della punta dell’iceberg.
Difficilmente si riesce a ricostruire i fatti, a dar seguito alle denunce dei detenuti, perché l’omertà del personale è forte.
A Modena, ad esempio, dopo le rivolte del 2020 ci sono stati diversi morti, ma la procura ha chiesto l’archiviazione del caso.
A Pavia, le presunte torture sono state derubricate a percosse. Anche a Melfi, dove vari detenuti hanno dichiarato di aver subito violenze, è stata chiesta l’archiviazione.
C’è un’avvocata che si oppone, Simona Filippi di Antigone. Anche se è consapevole che “senza i filmati è difficile abbattere il muro di omertà”.