Un grande intervento delle forze dell’ordine che ha fermato le azioni mafiose dei capi di Bagheria, oltre ad aver evitato un omicidio grazie all’operazione Persefone dei carabinieri che ha smantellato il clan, da sempre roccaforte di Cosa Nostra.
Un uomo, nonostante gli “avvertimenti”, aveva continuato a sfidare i vertici mafiosi.
Così i militari del comando provinciale di Palermo hanno eseguito un provvedimento di fermo emesso dalla Direzione distrettuale antimafia nei confronti di otto indagati, accusati a vario titolo di associazione mafiosa e finalizzata al traffico di stupefacenti, detenzione e vendita di armi clandestine, estorsione, lesioni aggravate, maltrattamenti, reati aggravati dalle modalità mafiose.
L’inchiesta è coordinata da un pool di magistrati con a capo il procuratore aggiunto Salvatore De Luca. I carabinieri del nucleo investigativo – attraverso intercettazioni ambientali, telefoniche, telematiche e veicolari – hanno delineato il nuovo organigramma della famiglia mafiosa. Insieme a Massimiliano Ficano,
ritenuto dagli investigatori il nuovo capomafia di Bagheria, sono stati fermati oggi anche i suoi uomini più fidati. Si tratta di Gino Catalano, Bartolomeo Scaduto, Giuseppe Cannata, Salvatore D’Acquisto, Giuseppe Sanzone e Carmelo Fricano.
Il boss si vantava con i suoi fedelissimi di essere stato iniziato nell’organizzazione dai mafiosi vicini a Bernardo Provenzano che in passato si erano occupati della latitanza del padrino corleonese.
I militari sono riusciti a ricostruire gli interessi dell’organizzazione nel traffico e spaccio di stupefacenti, nella gestione dei centri scommesse e nelle estorsioni.
Nel corso delle indagini è stato accertato che il capo della famiglia mafiosa aveva disponibilità di armi ed è stato anche individuato un imprenditore edile, ritenuto storico prestanome dei vertici della famiglia mafiosa.
Dalle indagini emerge che l’autorità del boss di Bagheria Massimiliano Ficano sarebbe stata messa in discussione da Fabio Tripoli, secondo le indagini dei carabinieri. Tripoli, apparentemente estraneo al contesto mafioso, ubriaco e spesso intemperante, si era permesso di sfidare pubblicamente il capo mafia.
La reazione contro l’affronto non era tardata. Ficano avrebbe incaricato alcuni affiliati di picchiare Tripoli. Un violento pestaggio che provocò alla vittima un trauma cranico e la frattura della mano.
Nonostante l’aggressione Tripoli avrebbe tuttavia continuato a sfidare il capo mafia armandosi con una accetta e dicendo in giro di essere intenzionato a dare fuoco a un locale inaugurato dallo stesso Ficano.
Un affronto che il boss decise di lavare con il sangue. “Lo scanniamo come un vitello”, la sentenza di morte. Per cercare di costruirsi un alibi, dopo aver dato l’ordine di uccidere il “ribelle”, il boss si allontanò da Bagheria, anche per prepararsi alla fuga visto il pericolo di essere arrestato.