Israele, la parabola di un piccolo-grande partito di sinistra: il Meretz
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Israele, la parabola di un piccolo-grande partito di sinistra: il Meretz

Meretz è entrato, non da oggi, in una grave crisi interna. Una crisi amplificata da una scelta che si voleva vincente: essere al Governo. Ma di “governismo” si può anche politicamente morire

Israele, la parabola di un piccolo-grande partito di sinistra: il Meretz
La leader del Meretz Zahava Gal-On
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27 Giugno 2022 - 16.33


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C’era una volta il Meretz. Un piccolo-grande partito. Piccolo, ma non minuscolo, per i consensi elettorali (che comunque gli hanno sempre garantito una rappresentanza alla Knesset, il Parlamento israeliano). Grande per i principi e gli ideali che ne hanno motivato la nascita, per le istanze sociali, culturali, identitarie che ha rappresentato. Perché per Meretz hanno votato gli scrittori israeliani più conosciuti e amati a livello internazionale, i più impegnati nel dialogo e per una pace giusta con i palestinesi. Due nomi fra i tanti, purtroppo scomparsi: Abraham Bet Yehoshua e Amos Oz. Meretz è (o forse è meglio declinare al passato= il partiti delle associazioni in difesa dei diritti delle donne e delle minoranze sessuali. Il partito votato alla grande nella laica, aperta, Tel Aviv. Il partito che ha avuto tra i suoi fondatori una delle Grandi donne d’Israele, che chi scrive ha avuto il privilegio di conoscerla personalmente, intervistarla più volte, e diventarne amico: Shulamit Aloni.

Meretz è entrato, non da oggi, in una grave crisi interna. Una crisi amplificata da una scelta che si voleva vincente: essere al Governo. Ma di “governismo” si può anche politicamente morire. E qui la lezione israeliana dovrebbe valere anche per le piccole, ma non minoritarie sul piano delle idee, forze di sinistra in Italia.

Alle radici di una crisi

Ad aiutarci nel nostro viaggio dentro la crisi di Meretz, due firme di primo piano di Haaretz: Noa Landau e Carolina Landsmann.

Scrive Nalndau: “Dieci misure di sacro furore si sono abbattute su Meretz, nove delle quali sono ora dirette alla violenza verbale contro la parlamentare Ghaida Rinawie Zoabi, che da un giorno all’altro è diventata il più grande problema dei resti della sinistra israeliana.

Se solo un pizzico di questa militanza fosse occasionalmente applicata alle questioni più importanti che minacciano l’agenda liberal-democratica che il partito pretende di rappresentare – come la creazione di una partnership più significativa e paritaria tra ebrei e arabi – e non solo alle questioni della società civile.

Il ministro della Salute Nitzan Horowitz, presidente del Meretz, sente fin troppo bene le pugnalate alle spalle. Lo schieramento del suo partito “anyone but Bibi” ha aggressivamente etichettato Rinawie Zoabi come la colpevole della disintegrazione del “governo del cambiamento” (come se Amichai Chikli, Idit Silman, Nir Orbach e la Lista Araba Unita non esistessero) – ed è stato Horowitz, dopo tutto, a reclutarla e a garantirle un posto nella lista prima delle ultime elezioni. Quindi fa quello che fanno molti politici: distoglie il fuoco da sé, da lei, con tutte le sue forze. In un’intervista a Army Radio giovedì, dopo che lei ha votato con la Lista Araba Unita contro la legge sulla cannabis, è sembrato più turbato di quanto non lo sia stato per qualsiasi altra questione, compresa la ratifica dell’apartheid in Cisgiordania. “È disgustoso e disonesto”, ha detto. “È un atto che supera davvero tutte le linee rosse, un atto spregevole”. Ha poi suggerito che Rinawie Zoabi è pazza: “C’è una questione più profonda qui. Non inizierò con analisi psicologiche. … Ha perso la strada”. E per il gran finale: “Non abbiamo alcun legame con questa donna… Questa donna non fa parte di noi e noi non facciamo parte di lei”.

La frustrazione di molti elettori del Meretz è comprensibile: per loro, tenere l’ex primo ministro e attuale presidente dell’opposizione Benjamin Netanyahu lontano dal governo è più importante dei principi della sinistra, della deviazione di Rinawie Zoabi dalla disciplina del partito e della coalizione e della sua posizione zigzagante e codarda sulle questioni LGBTQ.

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Ma l’estrema aggressività di Horowitz nei suoi confronti (“questa donna”) solo perché ha votato la sua coscienza, e così facendo ha rappresentato anche gran parte della comunità araba, mette in luce una sgradevole verità: Meretz, certamente sotto la guida di Horowitz, era e sarà fondamentalmente un partito ebraico, incapace di guidare una vera partnership tra ebrei e arabi.

Questo perché una tale partnership richiede anche la conoscenza reciproca, un dialogo e una negoziazione rispettosi, nonché compromessi dolorosi all’interno dei membri del partito alla Knesset – e non solo per decorare la lista del partito con candidati arabi, purché non siano fuori dalle righe.

Sono in molti a dare la colpa alla politica dell’identità nel Meretz, cioè a riservare uno spazio specifico a una donna araba. La conclusione che Horowitz trae da questa vicenda è di cessare gli sforzi per la diversità (“che si prendano chi vogliono e non vengano più a lamentarsi da me che non ci sono arabi”, ha minacciato a porte chiuse dopo che in passato era stato paracadutato in un posto riservato.

Si tratta di una conclusione completamente sbagliata. Il problema di Meretz non è la politica dell’identità, ma il tokenismo.

Il fatto che il presidente di Meretz abbia “raccolto” Rinawie Zoabi senza conoscerla bene, e ora la rinneghi in modo aggressivo, dice molto di più su di lui e su Meretz che su di lei.

Horowitz non deve andare a casa per aver riservato un posto a una donna araba. Deve rinunciare alla leadership del partito, tra le altre cose, perché non si è preoccupato di mostrare interesse per lei fin dall’inizio e ora la rinnega con la stessa rapidità con cui l’ha arruolata. Non ha le carte in regola per costruire un’autentica partnership tra ebrei e arabi nel partito”, conclude Landau.

Le fa eco, con pari lucidità analitica, Carolina Landsmann. 

Annota sul quotidiano progressista di Tel Aviv: “In vista delle prossime elezioni, credo che sarebbe opportuno concordare sul fatto che gli esponenti della sinistra che hanno sostenuto il cosiddetto governo del cambiamento, a voce alta o solo nei loro cuori, non possono ora – mentre crolla – tornare indietro e riadottare la vecchia retorica e mettere in guardia da Naftali Bennett, Ayelet Shaked, Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar, Zeev Elkin e altri, e dalle posizioni con cui sono identificati. È impossibile tornare a spaventare la gente per le persone con cui si sono uniti, e a mettere in guardia dai processi o dalle politiche che hanno sostenuto solo cinque minuti prima – sia attivamente che senza fare nulla.

Lo stesso vale per gli esponenti della destra che hanno sostenuto il governo del cambiamento. Anche loro non possono tornare alla vecchia retorica che mette in guardia dagli arabi e dalla sinistra: Vi abbiamo visto lavorare insieme, ridere e scherzare – una grande banda felice. Se la sinistra o la destra del governo del cambiamento agiranno in questo modo, non sarà diverso da come Benjamin Netanyahu e il suo partito Likud hanno messo in guardia dal collaborare con Mansour Abbas e la sua Lista Araba Unita, dopo che loro stessi erano disposti a collaborare con loro e a formare un governo con il loro aiuto. Quello che è successo, è successo. Solo i bugiardi negano il passato. Il regolamento d’emergenza per la Giudea e la Samaria, la legge sulla cittadinanza, l’insistenza sullo svolgimento della Marcia della Bandiera nel quartiere musulmano della Città Vecchia di Gerusalemme, il mantenimento della legge sullo Stato-nazione e così via – tutte queste “rane” sono state mangiate in nome della conservazione della coalizione di governo, e non è successo nulla. Nessun segno di reazione allergica è apparso sul corpo politico dei partiti di sinistra o dei loro elettori. Il “governo di guarigione” forse non ha curato i mali politici, ma sicuramente è riuscito a fornire alcune diagnosi. Una è che la sinistra del Partito Laburista e del Meretz sono meno sensibili alle rane di quanto pensassero. L’eruzione cutanea provocata dal governo di Netanyahu non è dovuta all’occupazione o alle politiche che ne derivano. Sono allergici a qualcos’altro. Questa diagnosi è importante per chiunque cerchi un rimedio politico per guarire la società e lo Stato. La sfida è identificare l’allergene. Se il governo del cambiamento è stato un esperimento politico, ha dimostrato che Israele non può più essere inteso come una società con un pareggio politico tra destra e sinistra. Esiste cioè uno stallo tra due campi che impedisce a uno dei due di governare, ma le categorie di destra e sinistra non decodificano davvero la storia per noi; anzi, al contrario: Possono impedirci di capire cosa sta realmente accadendo.

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Che cosa ha reso possibile a Shaked e Merav Michaeli e Tamar Zandberg e Bennett e Gaby Lasky e Lieberman e Sa’ar e Nitzan Horowitz e Omer Bar-Lev e Elkin di superare le loro apparentemente incolmabili differenze ideologiche e lavorare insieme? Lo chiedo non per metterli in imbarazzo (beh, forse un po’), ma piuttosto per cercare di avvicinarmi all’intima verità della politica israeliana, quella che non può essere discussa senza un’esplosione e che si nasconde dietro termini come “statalismo”, “rispetto”, “decenza” e “integrità”.

Di fronte a una maggioranza ebraica spaccata in due – che, come ha dimostrato l'”esperimento”, non è divisa secondo un indice politico di destra e sinistra, ma piuttosto secondo un diverso senso di appartenenza – alcuni rappresentanti della comunità araba cominciano a rendersi conto della mancanza di sincronizzazione tra audio e video. L’audio dice destra e sinistra, ma l’immagine è in bianco e nero. Questo è esattamente ciò che Abbas, con i suoi sensi acuti, ha colto. Se la differenza che costituisce la divisione politica in campi non è destra-sinistra, allora, in quanto minoranza, l’affiliazione automatica alla sinistra è anacronistica. Da ciò  – conclude Landsmann – deriva la disponibilità a collaborare con entrambi gli schieramenti, nella stessa misura. In questo senso, va dato credito a Lieberman, la cui uscita dalla destra ha dato il via a una migrazione di continenti che non si è ancora stabilizzata”.

Testimonianze dirette

Dell’ormai fu “Governo del cambiamento” faceva parte Tamar Zandberg, leader di Meretz, la sinistra pacifista israeliana, ministra della Protezione ambientale. Sul tema della pace così si era  espressa in una conversazione con chi scrive, avvenuta poco prima la scelta governista: “Quando parlo di subalternità alla narrazione della destra, mi riferisco anche a questo. Come se la pace fosse altra cosa rispetto ai problemi di tutti i giorni, una sorta di bene di lusso per i ricchi borghesi di Tel Aviv. Qui sta un nostro limite. Non aver fatto intendere che pace e giustizia sociale sono le due facce di una stessa medaglia. Perché raggiungere una pace giusta con i palestinesi significa destinare una parte importante del nostro bilancio statale dalla difesa all’istruzione, alla sanità pubblica, alla ricerca. Riconosco un nostro limite, grave, ma questo non significa che questa idea di pace sia tramontata. La pace non è, come la destra ripete, un cedimento al terrorismo e. a chi vorrebbe buttare a mare gli ebrei e cancellare Israele dalla carta geografica del Medio Oriente. La pace è uno dei pilastri su cui rifondare la nostra democrazia. Se questo significa ‘testimonianza’, ne vado fiera”.  

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Non molto distante era stata  la riflessione della leader del Labor, Mirav Michaeli, anch’ella ministra nel l’ex governo Bennett: “Non vi è dubbio che in questi anni, e ancor più con la crisi pandemica, quella che è emersa in tutta la sua drammatica incidenza nella vita di milioni di israeliani, è una irrisolta ‘questione sociale’ – annotava Michaeli in una nostra conversazione nel vivo dell’ultima campagna elettorale -. La crisi pandemica ha messo in ginocchio centinaia di aziende, portato decine di migliaia di famiglie sotto la soglia di povertà. E’ il grande tema delle disuguaglianze sociali, all’ordine del giorno a livello globale, e non solo in Israele. A questo malessere siamo chiamati a dare risposte concrete, praticabili. Oggi, non in un futuro che tanti israeliani è fatto solo di ombre e di una incertezza sempre più opprimente, insopportabile. La risposta che la destra israeliana ha dato non si discosta da quella di quell’universo sovranista di cui Trump, non a caso un modello per Netanyahu, è stato il faro, per fortuna spento il 3 novembre. Molti si dimenticano che in Israele si è votato l’anno scorso anche per rinnovare le amministrazioni locali delle più importanti città. Ebbene, in diverse di esse, come Tel Aviv e Haifa, solo per citarne alcune, a vincere sono stati candidati progressisti, uomini e donne che quel malessere sociale lo hanno affrontato e, per quanto possibile, portato a soluzione. Hanno frequentato le periferie, hanno ricostruito un rapporto con le fasce più deboli della società, quelle che un tempo erano un pezzo forte dell’elettorato laburista. Questo rapporto è andato sempre più scemando, divenendo quasi inesistente. Ma io non mi rassegno a questo. Quello che mi impensierisce di più non è l’essere visti come quelli del ‘campo per la pace’ e basta, ma di essere percepiti come quelli delle “èlite benestanti”, dei salotti buoni di Tel Aviv. Da qui bisogna ripartire, da un recupero di credibilità tra i ceti socialmente più indifesi, promuovendo anche una nuova classe dirigente. Sì lo so, ogni segretario appena eletto ripete questo mantra. Stavolta, però, non sarà così. E non perché io sia più coerente e tosta di quelli che mi hanno preceduto, ma perché o si rinnova o si muore. Lo dico con uno slogan che deve tradursi in politica: ‘Tra l’Israele delle start up, che costruisce il futuro, e l’Israele degli ultraortodossi, proiettai nel passato, la nostra scelta è chiara e netta. Quella di Netanyahu, no’”. So bene che lo spostamento a destra del paese non è qualcosa che nasce con quest’ultimo governo, ma che viene da lontano, e da cambiamenti strutturali, in primo luogo demografici e sociali, che la sinistra, e in primis il mio partito, non sono stati all’altezza di cogliere, come invece ha dimostrato di saper fare la destra. Non siamo stati all’altezza delle sfide del cambiamento. Di questo ebbi modo di discutere in uno dei nostri ultimi incontri, prima della sua scomparsa, con Shimon Peres. “’e non sai leggere i cambiamenti intervenuti, sei destinato alla marginalità o a vivere in un passato che non c’è più’, mi disse Shimon. Ed è una lezione che non dimenticherò mai”.

Si spera che quella lezione possa servire in termini di sana autocritica. Israele si avvia alle quinte elezioni anticipate in meno di quattro anni. Per Labor e Meretz l’obiettivo è la sopravvivenza elettorale. Non è un bel vedere.

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