Fatto il decreto, inizia la disobbedienza. Un atto nobile, di straordinaria generosità, da sostenere e moltiplicare. Perché in gioco ci sono vite umane. Quelle che le navi Ong soccorrono in mare. Nello stesso giorno in cui il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, firma il tanto contestato decreto anti-Ong, ecco la prima “disobbeddienza”. La nave Geo Barents di Medici senza frontiere (Msf) cambia rotta: la segnalazione di una barca in pericolo è stata raccolta dalla imbarcazione umanitaria che con gli 85 migranti salvati si stava dirigendo verso il “porto sicuro” di Taranto.
La nave, spiega la Ong, si sta adesso dirigendo verso questa imbarcazione per prestare soccorso. Ma ora c’è l’incognita di eventuali sanzioni. La Geo Barents è la prima imbarcazione di un’organizzazione umanitaria ad aver operato un salvataggio dopo l’approvazione del cosiddetto decreto sulle Ong, che stabilisce un nuovo codice di condotta sulle attività di salvataggio in mare da parte di queste ultime: tra le regole del provvedimento – appena firmato dal Presidente della Repubblica – c’è quella di dover chiedere subito un porto sicuro senza sostare ulteriormente in mare dopo un soccorso e di far formalizzare la richiesta di asilo da parte dei profughi già sulla nave.
Pena multe fino a 50mila euro e confisca dell’imbarcazione. Racconta Fulvia Conte, responsabile dei soccorsi a bordo della Geo Barents: “Abbiamo a bordo con noi 85 persone di cui 41 sono state soccorse in una operazione molto difficile avvenuta l’altro ieri notte. Viaggiavano da tre giorni e durante le operazioni il barchino si è ribaltato e tutte le persone sono finite in acqua. Durante questi tre giorni di navigazione ci hanno raccontato che più volte persone sono cadute in mare e hanno usato i loro vestiti per tappare i buchi dai quali entrava l’acqua nel loro barchino. Abbiano a bordo molti minori non accompagnati, persone che vengono dalla Siria, dalla Palestina, persone che raccontano di essere state mesi in Libia, di aver subito violenze e torture. Un ragazzo ci ha raccontato di aver visto con i propri occhi persone essere uccise davanti a lui perché non avevano abbastanza soldi per pagare il viaggio. Questa è la realtà di quello che avviene in Libia, di quello che avviene nel Mediterraneo centrale in cui ogni momento è importante tra la vita e la morte”.
Il soccorso drammatico il giorno di Capodanno
Su richiesta del Centro nazionale di coordinamento del Soccorso marittimo italiano, il team di Medici senza frontiere a bordo della Geo Barents ha soccorso la scorsa notte 41 persone in difficoltà in acque internazionali al largo della Libia. Si tratta del primo salvataggio che avviene dopo l’approvazione del decreto sulle Ong. A quanto si apprende da Msf, la barca dei migranti si era capovolta e i 41 sopravvissuti, tra cui due donne, sono ora a bordo della nave. Poche ore dopo il team ha effettuato un trasbordo da una nave mercantile di 44 persone. Nel frattempo le autorità italiane avevano assegnato il porto di Taranto dove la nave Ong si stava dirigendo per far sbarcare le 85 persone a bordo. “Serviranno due giorni di navigazione per raggiungerlo” avevano spiegato da Msf.
In punta di diritto
L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione sottolinea in una nota del 28 ottobre scorso “l’erroneità, in punto di diritto, delle affermazioni del ministro dell’Interno del Governo italiano, Matteo Piantedosi, in relazione alle attività di Search & Rescue (Sar) ad opera di organizzazioni umanitarie”.
Il neo ministro dell’Interno, che – ricorda l’associazione – è fra gli autori del decreto “Sicurezza-bis” nel 2019, torna a descrivere le attività di salvataggio delle Ong in mare attraverso la lente del contrasto alla migrazione irregolare, “violando dal nostro punto di vista quanto prescritto dal diritto internazionale del mare e sui diritti umani in tema di soccorso marittimo”. Secondo l’Asgi, il ministro distingue in “modo artificiale e illegittimo” le operazioni di primo soccorso in mare dalla fase dello sbarco in un “luogo sicuro” (Pos, place of safety). “Egli considera l’ingresso nei porti europei a seguito di operazioni di soccorso avvenute fuori dalla Sar italiana, alla stregua di un’attività che viola le norme sull’immigrazione e non invece come l’ultima (e necessaria) fase che conclude un evento Sar”. Un soccorso è “un’operazione per recuperare persone in pericolo, provvedere alle loro prime necessità mediche o di altro tipo e portarle in un luogo sicuro” in base al paragrafo 1.3.2 della Convenzione Sar. La stessa Convenzione obbliga gli Stati a cooperare per garantire che “i sopravvissuti assistiti siano sbarcati dalla nave che li ha assistiti e condotti in un luogo sicuro (par. 3.1)”.
Di grande interesse è il saggio del professor Fulvio Vassallo Paleologo, tra i più autorevoli studiosi italiani di diritto del mare e diritto umanitario, pubblicato su Questioni Giustizia (il trimestrale di Magistratura democratica)
“L’obbligo di salvare la vita in mare – rimarca Vassallo Paleologo – costituisce un preciso obbligo degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. La ricostruzione dei fatti e la qualificazione delle responsabilità dei diversi attori coinvolti nelle attività di ricerca e salvataggio (Sar) nelle acque internazionali del Mediterraneo Centrale deve tenere conto dei rilevanti profili di diritto dell’Unione europea e di diritto internazionale che, in base all’art. 117 della Costituzione italiana, assumono rilievo nell’ordinamento giuridico interno. Le scelte politiche insite nell’imposizione di Codici di condotta, o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale o dalle autorità di coordinamento dei soccorsi, non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati che devono garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco in un luogo sicuro (place of safety). Eventuali intese operative tra le autorità di Stati diversi, o la paventata “chiusura” dei porti italiani, non possono consentire deroghe al principio di non respingimento in Paesi non sicuri affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra.
In base all’art. 33 della Convenzione di Ginevra, «Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Tale obbligo è stato ribadito nel rapporto «Rescue at Sea: A Guide to Principles and Practice as Applied to Migrants and Refugees», elaborato nel 2006 dall’Imo e dall’Unhcr e sottoposto ad aggiornamento nel 2015. In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di tutelare adeguatamente i richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’Unchr ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione.
Va ricordato anche l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione), secondo cui «Le espulsioni collettive sono vietate» e «Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti». In base all’articolo 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, le espulsioni collettive, e secondo la giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, anche i respingimenti collettivi in acque internazionali (caso Hirsi), sono vietati
Come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’Uomo nella sentenza Hirsi, «secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio dello Stato, o a bordo di una nave battente bandiera dello stesso, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di esso». Per la Corte, «dotato di questo contenuto e di questa estensione, il divieto di respingimento costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. È inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva» (articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del Protocollo del 1967).
Lo stretto coordinamento che emerge tra la Guardia costiera italiana, nel suo Comando centrale (Imrcc), la Marina militare con una nave presente nel porto di Tripoli, e la cd. Guardia costiera “libica” potrebbe quindi configurare un vero e proprio respingimento collettivo, attuato anche direttamente dall’Italia, vietato dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla Cedu e dall’art. 19 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea. Se infatti, per la configurazione di un respingimento collettivo, in base a quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, occorre che i migranti siano soggetti alla potestà esclusiva del Paese che respinge, in questo caso l’Italia, la circostanza che le persone siano a bordo di imbarcazioni coinvolte in attività Sar inizialmente coordinate da autorità italiane, le sottopone alla piena giurisdizione dell’Italia, che in questa qualità deve anche garantire un luogo di sbarco nel place of safety più vicino, e non nel porto più vicino. Sono queste le ragioni che potrebbero portare ad una ulteriore condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, sempre che vengano superate le questioni procedurali sulle quali si riducono sempre più gli interventi dei giudici di Strasburgo.
Quando le autorità italiane cedono alle autorità libiche la responsabilità Sar, inizialmente assunta dopo il primo avvistamento dei natanti da soccorrere, anche con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di gommoni in acque internazionali, ricadono già sotto la sua giurisdizione esclusiva, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi civili o militari che vengono soccorsi, si realizzano tutti gli estremi di un trasferimento di giurisdizione che equivale ad una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un Paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova in una fase di conflitto armato e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica, al punto che a tale riguardo sono in corso indagini da parte della Corte Penale internazionale “.
Una intervista illuminante
E’ quella su Avvenire di Nello Scavo al professor Flick.
«Mi sembra che per ostacolare i salvataggi in mare si sia scelta una via tipicamente italiana e burocratica: il ricorso a ordini e sanzioni amministrativi. Esempio: anziché assegnare il porto sicuro più vicino, come previsto dalle norme nazionali e internazionali, si indica il porto “burocraticamente” più vicino; si utilizza la nostra nota “efficienza amministrativa” allo scopo di ostacolare i soccorsi in mare». Già presidente della Corte Costituzionale e in precedenza Guardasigilli nel primo governo Prodi, il professor Giovanni Maria Flick in questa intervista ad Avvenir epassa al setaccio il decreto sulle Ong, e guarda oltre. Fino al rischio di replicare questa modalità e farla diventare “sistema” per aggirare gli obblighi di legge. « E’ ovvio che assegnando porti di sbarco lontanissimi, quasi ai nostri estremi confini marittimi, si vuole tenere occupate a lungo le navi umanitarie, impedendo loro di navigare nel Mediterraneo centrale per salvare altre vite o – secondo qualcuno – per pretesi ignobili accordi con trafficanti di uomini».
Non crede che il salvataggio sia messo in discussione anche da altri paletti posti nel decreto?
Si pongono limitazioni incomprensibili, come quella di impedire salvataggi plurimi. Se una nave soccorre un gruppo di naufraghi e lungo la rotta verso il porto di sbarco avesse la possibilità di salvare altre vite, dovrebbe voltarsi dall’altra parte? Stiamo parlando dell’assurdo.
Qual è secondo lei la logica di queste scelte?
L’osservazione più precisa è venuta dalla Conferenza episcopale italiana: ha ricordato come queste regole non proteggono il valore supremo della vita umana. Si è passati dal non considerare più i migranti-naufraghi come fossero “oggetti” da depositare in luoghi dove non si rispettano i diritti fondamentali, al trattarli come “merce deperibile” o peggio “rifiuti pericolosi”, adempiendo formalità burocratiche che servono solo a mettersi la coscienza a posto. In altri termini, si sottrae l’intervento al controllo penale, con la previsione di fattispecie di reato, temendo che queste vadano a scontrarsi con i principi fondamentali dell’ordinamento internazionale e costituzionale che pongono al primo posto la protezione della vita umana.
Circoscrivere le attività in mare al Diritto amministrativo non è in fondo un alleggerimento rispetto all’esercizio dell’azione penale?
In realtà l’idea che si vuol far passare, ma solo in apparenza, è che l’eventuale illecito amministrativo sia da ritenere meno grave di una sanzione penale. Ma non è altro che un modo per eliminare garanzie e burocratizzare un tema che meriterebbe altre riflessioni e altri interventi e che è stata condannata più volte dalla Corte europea dei diritti umani come “truffa delle etichette”. Peraltro in un Paese come il nostro, dove la burocrazia non ha mai dato prova di indiscutibile efficienza. E c’è un altro risvolto da non sottovalutare.
Quale?
Quello di delegare una serie di interventi ai prefetti, a cui è demandata anche la possibilità di bloccare le navi, rievocando i poteri prefettizi nella forma più sgradevole.”
Più chiaro di così non si può- Disobbedire è giusto, eticamente e in punta di diritto. Perché quello anti Ong non è solo un decreto disumano. E’ pure fuorilegge.
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