Migranti, le "rotte vessatorie": così il governo Meloni vuole cancellare le Ong dal Mediterraneo
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Migranti, le "rotte vessatorie": così il governo Meloni vuole cancellare le Ong dal Mediterraneo

Porti assegnati a distanze impossibili. Le “rotte vessatorie”: la nuova frontiera della guerra contro le navi Ong scatenata dal governo Meloni-Piantedosi.

Migranti, le "rotte vessatorie": così il governo Meloni vuole cancellare le Ong dal Mediterraneo
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Gennaio 2023 - 16.13


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Porti assegnati a distanze impossibili. Le “rotte vessatorie”: la nuova frontiera della guerra contro le navi Ong scatenata dal governo Meloni-Piantedosi.

Le “rotte vessatorie”

Di grande interesse è il report per Today di Andrea Maggiolo.

Scrive Maggiolo: “I viaggi dal canale di Sicilia fino al nord Italia (La Spezia, nel caso della nave Geo Barents di Medici senza Frontiere), non saranno sostenibili per molto. L’imbarcazione umanitaria, con 237 migranti a bordo, sta affrontando tre giorni e mezzo di navigazione davanti a sé per raggiungere il porto ligure, che dista un migliaio abbondante di chilometri. Dovrebbe arrivare sabato in serata. Non va meglio alla Ocean Viking, che ha più di 72 ore e 1500 chilometri di mare davanti a sé per arrivare a Marina di Carrara e poter così sbarcare i migranti salvati sulla rotta del Mediterraneo centrale. Rotte “vessatorie”, le ha definite qualcuno: “Una navigazione di tre giorni ed espongono donne, uomini e bambini a onde, pioggia, vento e freddo”, scrive in un tweet la ong Sos Mediterranée, che nelle ultime ore ha messo in salvo 95 migranti nel Mediterraneo: “I sopravvissuti soffrono di mal di mare. L’equipaggio sta facendo del proprio meglio per supportarli. Per legge, lo sbarco dev’essere garantito prima possibile per tutelare la salute e la sicurezza delle persone soccorse”. Appello che resterà inascoltato, nonostante siano le leggi internazionali a prevedere che i naufraghi vadano assicurati nel “luogo sicuro” più vicino. Non porto ma “luogo” di garanzie per diritti e convenzioni. Tradotto: in questi casi, dovrebbero essere le coste siciliane o calabresi.

Le navi delle Ong che non partono più

Il decreto del governo Meloni rende, di fatto, insostenibili, già a breve termine, le attività nel Mediterraneo delle organizzazioni non governative. Dopo due mesi dalla sua entrata in vigore, le conseguenze sembrano già inevitabili. I costi dei soccorsi sono giganteschi anche per navi come Geo Barents e la Ocean Viking, che sono espressione di Ong strutturate come Medici senza frontiere e Sos Mediterranée. I costi stellari del carburante necessario per coprire tratte così lunghe hanno di fatto già costretto molte navi a fermarsi, e le Ong puntano su campagne straordinarie di donazioni. Al momento non sufficienti per partire, se si pensa che sono ferme la spagnola Open Arms e l’italiana Mare Jonio, così come la nuova nave di Amnesty international. Ferme anche le Ong tedesche, Sea eye, Mission Lifeline, Sos Humanity. Soltanto la Sea Watch con la sua nuova nave colosso, si è messa in viaggio nelle scorse ore. Il presidente della ong, Gordon Isler, ha spiegato che ha potuto farlo soltanto per le donazioni ricevute, “grazie allo sforzo dei sostenitori. Le altre cinque missioni pianificate per il 2023 non hanno ancora trovato finanziamenti”.

Secondo il diritto internazionale, un luogo sicuro per sbarcare dovrebbe essere assegnato “con la minima deviazione dal viaggio della nave” e dovrebbe essere fatto ogni sforzo “per ridurre al minimo il tempo delle persone soccorse a bordo della nave che presta assistenza”, vale a dire il prima possibile. Le Ong non decidono di “portare” ma decidono di “salvare” persone in mare in fuga dagli “orrori inimmaginabili della Libia” (definizione dell’Onu). Salvarli è un dovere oltre che un obbligo, lo dimostra il fatto che la stragrande maggioranza dei salvataggi viene effettuata dalla guardia costiera italiana nel Mar Ionio e al largo di Lampedusa. Ma davvero l’Italia viola così apertamente le leggi internazionali? Il ministro dell’Interno Piantedosi ritiene che la nave umanitaria stessa sia un Place of Safety (POS, porto sicuro). Ma sembra una posizione fragile, perché per le convenzioni internazionali, POS è il luogo a terra più agevole da raggiungere ove si conclude il soccorso e lo sbarco va assicurato al più presto dallo Stato di quel luogo. Il tema è evidentemente politico.

L’ultimo decreto varato recentemente dall’esecutivo Meloni delinea invece un “codice di condotta” per le navi Ong: stop al trasbordo dei naufraghi (cioè quando una nave più piccola compie un soccorso e poi trasferisce su una nave più grande i naufraghi per continuare a operare altri soccorsi) e ostacoli, nei fatti, ai soccorsi multipli (a meno che non siano richiesti dalle autorità della zona Sar).  Viene previsto l’obbligo di chiedere il porto di sbarco all’Italia immediatamente dopo aver effettuato il primo salvataggio. Porto che deve essere “raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso”. C’è un sistema sanzionatorio di natura amministrativa, in sostituzione del vigente sistema di natura penale; sono previste multe da 10mila fino a 50mila euro (per il comandante e per l’armatore). Prevista anche la confisca della nave per due mesi.

Le Ong soccorrono una minima percentuale dei migranti

Le navi Ong (il cui pull factor nel favorire le partenze dal Nordafrica non è mai stato provato) quest’anno hanno salvato “solo” una minima percentuale dei migranti approdati in Italia: tutti gli altri, il 90 per cento circa, arrivano con barchini fino a Lampedusa o vengono soccorsi da motovedette della guardia costiera e della guardia di finanza, che trasferiscono poi uomini, donne e bambini nei porti italiani (quelli vicini, siciliani e calabresi). La decisione governativa di inviare in porti lontani le navi umanitarie ha anche l’inevitabile conseguenza di costringere città come La Spezia e Marina di Carrara a improvvisare sistemi di prima accoglienza, che sono invece collaudati ed efficienti al Sud. Dopo lo sbarco in ogni caso i migranti devono essere redistribuiti in altre regioni nei centri di accoglienza che hanno disponibilità di posti”.

 Picchiati, puniti, respinti

Ne dà conto, in un documentato articolo su Redattoresociale.it. Eleonora Camilli. “Sono circa seimila (5.756) le persone respinte lungo le frontiere europee nell’ultimo anno, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2022. Persone a cui non è stata soltanto negata la possibilità di avere accesso alla  protezione internazionale ma che nella maggior parte dei casi sono state allontanate con metodi violenti e illegittimi, che rappresentano ormai pratiche sistematiche e integrate nei meccanismi di controllo delle frontiere dei Paesi Ue.  E’ quanto emerge dal Rapporto  “Picchiati, puniti e respinti”, pubblicato dal network Protecting Rights at Borders (PRAB).

Secondo il report a molte delle vittime respinte “non è stato semplicemente impedito di attraversare il confine, ma sono state accolte nell’Ue con la negazione dell’accesso alle procedure di asilo, l’arresto o la detenzione arbitraria, l’abuso fisico o il maltrattamento, il furto o la distruzione di beni”. In particolare chi viene da Afghanistan, Siria e Pakistan ha riferito di essere stato più spesso vittima di respingimenti. Inoltre si sottolinea che  nel 12% degli incidenti registrati sono stati coinvolti bambini. Dati che secondo i ricercatori “sono purtroppo solo la punta dell’iceberg”.

In Italia l’uso sistematico dei respingimenti è in aumento

Per quanto riguarda l’Italia il monitoraggio contiene dati e informazioni sul confine con la Francia e sui respingimenti dai porti dell’Adriatico verso la Grecia. “Assistiamo a continue riammissioni lungo i porti adriatici dall’Italia alla Grecia e a respingimenti verso l’Albania. Si tratta di trattamenti inumani, come la confisca e la distruzione degli effetti personali, la svestizione forzata e l’esposizione a temperature estreme. Il governo italiano cerca di negare che ciò avvenga. Ma la situazione sembra peggiorare“, sottolinea Erminia Rizzi dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi).

Il report è anche un atto di denuncia sull’atteggiamento degli Stati membri che troppo spesso fingono di non sapere cosa accade lungo i confini dell’Ue. Per  il segretario generale della Danish Refugee Council, Charlotte Slente:”  La pratica di chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani alle frontiere dell’Ue deve essere interrotta.È giunto il momento di sostenere, rispettare e far rispettare i diritti di coloro che si trovano alle porte dell’Europa, indipendentemente dal loro Paese di appartenenza. Tutti hanno il diritto di chiedere protezione internazionale nell’UE. Per anni, la Drc, insieme ai suoi partner del Prab e a molti altri attori, ha raccolto prove sulle pratiche di respingimento – aggiunge -. Le prove sono innegabili. Questo schema non deve essere visto in modo isolato. Fa parte di una più ampia crisi dello Stato di diritto. La crisi alle frontiere dell’UE non è una crisi di numeri. È invece una crisi di dignità umana e di volontà politica, dovuta alla mancata attuazione dei quadri giuridici esistenti e all’applicazione delle sentenze giudiziarie“.

Impedire l’accesso al territorio con tutti i mezzi

Tra i respingimenti documentati ci sono anche quelli in Grecia sia alle frontiere marittime che terrestri “rimangono una politica generale de facto, come ampiamente riportato anche dagli organismi delle Nazioni Unite. Tuttavia, invece di indagare efficacemente su tali accuse, le autorità greche hanno messo in atto un nuovo meccanismo che non assicura le garanzie di imparzialità ed efficacia. Allo stesso tempo, le organizzazioni umanitarie e chi difende i diritti umani che sostengono le vittime dei presunti respingimenti continuano a subire pressioni e a essere presi sempre più di mira“, afferma Konstantinos Vlachopoulos del Greek Council for Refugees.

Il report indaga inoltre sul doppio standard di accoglienza e protezione in Europa.“Accolti ad un confine, respinti ad un altro. La situazione non è uguale a tutti i confini dell’UE. Diverso se fuggi dall’Ucraina o dall’Afghanistan Esistono due pesi e due misure basate sul profilo etnico ma questo viola il diritto internazionale dei diritti umani. Il 2022 è stato l’anno in cui l’UE ha fornito protezione – almeno sulla carta – a 4,9 milioni di persone entrate nell’UE dall’Ucraina. L’attivazione della direttiva sulla protezione temporanea è stata una decisione storica” si legge nel rapporto. “Nel febbraio 2022, la Polonia ha aperto le sue frontiere per accogliere un gran numero di persone ucraine in fuga dalla guerra. La protezione temporanea è stata concessa a chi era in cerca di protezione dalla guerra. Questo approccio accogliente delle autorità polacche non ha influito sulla situazione al confine tra Polonia e Bielorussia, dove dall’agosto 2021 continua una crisi umanitaria. Lì, le persone provenienti da Paesi terzi vengono quotidianamente respinti con violenza, indipendentemente dalla loro vulnerabilità o dalle loro richieste di asilo“, afferma Maja Łysienia, esperta di contenzioso strategico del SIP.

 Le associazioni del network Protecting Rights at Borders (PRAB) ricordano che il ricorso ai respingimenti come mezzo per proteggere i confini degli Stati è illegale.

“Gli Stati hanno l’obbligo di garantire che le persone possano effettivamente chiedere asilo e di rispettare il principio di non respingimento, in base alla Dichiarazione universale dei diritti umani e alla Convenzione europea dei diritti umani(CEDU) – sottolineano – Inoltre, in base alle norme giuridiche in vigore, gli Stati non possono effettuare espulsioni collettive e devono trattare ogni persona nel rispetto della dignità umana”.

 E l’Europa si mura

Lo documenta da Bruxelles Giovanni Maria Del Re per Avvenire: “Tornano a crescere i flussi migratori e riappare la parola «magica»: muri alle frontiere esterne. Il tema è tornato alla ribalta, sulla scorta dei dati diffusi da Frontex (l’agenzia delle frontiere esterne Ue): il 2022 ha registrato 330.000 ingressi irregolari, il «più elevato numero dal 2016». Il tema è stato evocato ieri al Consiglio informale dei ministri dell’Interni Ue a Stoccolma e lo sarà al Consiglio europeo informale del 9 e 10 febbraio. 

Partiamo subito da un punto: i «muri» sono già ampiamente realtà. Secondo un documento pubblicato dal Parlamento Europeo lo scorso ottobre, a fine 2022 si contavano 2.048 chilometri di barriere ai confini Ue in 12 Stati membri, nel 2014 erano appena 315, nel 1990 zero. 

A dare l’esempio fu la Spagna, che tra il 1993 e il 1996 realizzò 20,8 chilometri di recinzione intorno alle sue exclave in Marocco di Ceuta e Melilla. Pochi anni dopo è stato il turno dellaLituania, che ha costruito barriere (71,5 chilometri) con la Bielorussia già tra il 1999 e il 2000, dunque prima di entrare nell’Ue (muri poi «ereditati» dall’Ue). In seguito alla crisi dei profughi “inviati” da Minsk in Europa, la repubblica baltica ha ampliato la recinzione a 502 chilometri.

Possiamo citare i 37,5 chilometri di barriera (con pali d’acciaio alti cinque metri) al confine tra Grecia e Turchia lungo il fiume Evros, Atene ha già annunciato che costruirà altri 35 chilometri. 

Anche la Bulgaria ha eretto al confine turco una recinzione a partire dal 2014, che oggi conta 235 chilometri. 

Come dimenticare l’Ungheria, che tra il 2015 e il 2017 ha costruito 158 chilometri di recinzione al confine serbo e 131 al confine con la Croazia (oggi membro Ue e di Schengen). Muri li troviamo anche ai confini esterni in Polonia, Estonia, Lettonia, in Francia all’imbocco del tunnel della Manica, per non parlare dell’Austria che nel 2015 ha «innovato», costruendo la prima recinzione (3,7 km) al confine con uno Stato Schengen, la Slovenia.

I muri insomma “crescono” e molti Stati membri vogliono che a finanziarli sia l’Ue (il primo a chiederlo fu il premier ungherese Viktor Orbán). Ed è di questi giorni la richiesta del cancelliere austriaco Karl Nehammer che Bruxelles eroghi due miliardi di euro per rafforzare la barriera eretta dalla Bulgaria al confine con la Turchia. Richiesta ribadita ieri a Stoccolma dal suo ministro dell’Interno Gerhard Karner. «So che è oggetto di dibattiti accesi – ha detto ottimista – ma penso anche che recentemente ci sia stato un movimento sul tema, perché molti Paesi sono coinvolti e le frontiere esterne hanno bisogno di aiuto».

L’Austria è sotto forte pressione migratoria, come lo è l’Olanda (soprattutto per i flussi secondari da altri Stati Ue), che ha dato man forte a Vienna. A suo sostegno anche il presidente del Partito Popolare Europeo, Manfred Weber. «A nessuno piace costruire recinzioni – ha dichiarato – ma dov’è necessario, deve essere fatto».

Già nell’ottobre 2021, dodici Stati membri (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia) hanno inviato alla Commissione una lettera chiedendo finanziamenti Ue per i “muri”. «Barriere fisiche – scrivevano – appaiono un’efficace misura di protezione dei confini che servono gli interessi di tutte l’Ue» e dunque «devono essere oggetto di fondi aggiuntivi adeguati dal bilancio Ue con la massima urgenza». La Commissione per ora ha resistito. «Non ci saranno fondi per fili spinati e muri» replicò allora la presidente Ursula von der Leyen.

Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, è stato però più morbido, parlando di «finanziamento giuridicamente possibili». E ieri a Stoccolma la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson è apparsa più sfumata. «Gli Stati membri – ha detto – sono quelli che meglio sanno quali sono le misure più efficaci per proteggere le frontiere esterne».

Quanto ai soldi, «gli Stati membri hanno tagliato i fondi proposti dalla Commissione per il bilancio 2021-27 per la gestione delle frontiere e la migrazione, se si vogliono finanziare nuove misure bisogna tagliare altrove». 

E l’Italia? La premier Giorgia Meloni, che all’opposizione chiedeva il “blocco navale” davanti alla Libia, oggi parla di resuscitare la missione navale Ue nel Mediterraneo antiscafisti Sofia (chiusa nel 2020, per volontà dell’allora governo italiano), in particolare la “fase tre” mai attuata, che prevede il pattugliamento nelle acque libiche. Ci vorrebbe il via libera della autorità di Tripoli”.

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