Papa Francesco: "Qualcuno in Argentina voleva tagliarmi la testa per quanto accaduto sotto la dittatura"
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Papa Francesco: "Qualcuno in Argentina voleva tagliarmi la testa per quanto accaduto sotto la dittatura"

Papa Francesco: «Alcuni del governo volevano `tagliarmi la testa´, e hanno tirato fuori non tanto questo problema di Ja'lics, ma hanno messo in questione proprio tutto il mio modo di agire durante la dittatura».

Papa Francesco: "Qualcuno in Argentina voleva tagliarmi la testa per quanto accaduto sotto la dittatura"
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9 Maggio 2023 - 15.09


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Papa Francesco ha rilasciato una lunga intervista a La Civiltà Cattolica, raccontando alcuni retroscena su alcuni attacchi ricevuti dal governo argentino.

«Alcuni del governo volevano `tagliarmi la testa´, e hanno messo in questione proprio tutto il mio modo di agire durante la dittatura», ha affermato Papa Francesco in un incontro con la comunità gesuita di Budapest, con cui ha avuto unb colloquio il 29 aprile scorso. Il riferimento parte dalla vicenda dei gesuiti Ferenc Ja’lics e Orlando Yorio, che «lavoravano in un quartiere popolare e lavoravano bene. Ja’lics è stato mio padre spirituale e confessore durante il primo e secondo anno di teologia».

«Nel quartiere dove lavorava c’era una cellula di guerriglia. Ma i due gesuiti non avevano niente a che fare con loro: erano pastori, non politici. Ma sono stati fatti prigionieri da innocenti. Non hanno trovato niente per accusarli, ma loro hanno dovuto fare nove mesi di carcere, subendo minacce e torture».

«Poi sono stati liberati, ma queste cose lasciano ferite profonde. Ja’lics è venuto subito da me e abbiamo parlato. Io gli ho consigliato di andare da sua madre negli Stati Uniti. La situazione era davvero troppo confusa e incerta. Poi si è sviluppata la leggenda che sarei stato io a consegnarli perché fossero imprigionati. Sappiate che un mese fa la Conferenza episcopale argentina ha pubblicato due volumi dei tre previsti con tutti i documenti relativi a quanto accaduto tra la Chiesa e i militari. Trovate tutto lì». 

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«Quando sono andati via i militari, Ja’lics mi ha chiesto il permesso di venire per fare un corso di Esercizi spirituali in Argentina. Io l’ho fatto venire, e abbiamo anche celebrato la Messa insieme. Poi l’ho rivisto da arcivescovo e poi ancora anche da Papa: è venuto a Roma a vedermi. Avevamo tenuto sempre questo rapporto. Ma quando venne l’ultima volta a trovarmi in Vaticano, io vedevo che lui soffriva perché non sapeva come parlarmi. C’era una distanza. Le ferite di quegli anni passati sono rimaste sia in me sia in lui, perché entrambi abbiamo vissuto quella persecuzione».

«Alcuni del governo volevano `tagliarmi la testa´, e hanno tirato fuori non tanto questo problema di Ja’lics, ma hanno messo in questione proprio tutto il mio modo di agire durante la dittatura. Mi hanno, quindi, chiamato in giudizio. A me è stata data la possibilità di scegliere dove tenere l’interrogatorio. Io ho scelto di farlo in episcopio. È durato 4 ore e 10 minuti. Uno dei giudici era molto insistente sul mio modo di comportarmi. Io ho sempre risposto con verità». 

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«Ma, dal mio punto di vista, l’unica domanda seria, con fondamento, ben fatta, è venuta dall’avvocato che apparteneva al partito comunista. E grazie a quella domanda le cose si sono chiarite. Alla fine, fu accertata la mia innocenza. Ma in quel giudizio non si parlò quasi per nulla di Ja’lics, ma di altri casi di persone che avevano chiesto aiuto».

«Io poi ho rivisto qui a Roma da Papa due di quei giudici. Uno insieme a un gruppo di argentini. Mi ha abbracciato e se n’è andato. L’ho poi rivisto ancora e si è presentato. Gli ho detto: `io merito cento volte una punizione, ma non per quel motivo´. Gli ho detto di stare in pace con questa storia. Sì, io merito un giudizio per i miei peccati, ma su questo punto voglio essere chiaro. È venuto anche un altro dei tre giudici, e mi ha detto chiaramente che avevano ricevuto indicazione dal governo di condannarmi». 

«Quando Ja’lics e Yorio sono stati presi dai militari, la situazione che si viveva in Argentina era confusa e non era per nulla chiaro che cosa si dovesse fare. Io ho fatto quel che sentivo di fare per difenderli. È stata una vicenda molto dolorosa. Ja’lics era un uomo buono, un uomo di Dio, un uomo che cercava Dio, ma è stato vittima di un entourage al quale lui non apparteneva. Lui stesso l’ha capito. Era l’entourage della guerriglia attiva nel luogo dove lui andava a fare il cappellano. Ma nella documentazione che è stata pubblicata in due volumi voi troverete la verità su questo caso».

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