Una maestra d’asilo della provincia di Viterbo è indagata per maltrattamenti fisici e psicologici su alcuni bambini della scuola per cui lavora. «Smettila di piangere che ti butto dove butto i rami secchi», ma anche insulti come «scema» o «faccia da cazzo».
Comportamenti per cui è finita indagata dalla Procura e per cui il gip di Viterbo ha emesso un provvedimento che la terrà lontana dall’insegnamento. Almeno per i prossimi dodici mesi. L’indagine dei carabinieri di Viterbo è stata articolata ed è partita dalle segnalazioni fatte dai genitori di alcuni alunni, che avevano notato malessere e sofferenza nei figli, soprattutto quando entravano in contatto con la maestra in questione.
I carabinieri hanno monitorato l’aula per oltre un mese, scoprendo «un `metodo´ educativo e didattico improntato ad un rimarcato autoritarismo, condotte aggressive e comportamenti denigratori, tutti contegni non solo confliggenti con un percorso di sana crescita dei minori in tenera età ma forieri di sofferenze e disagi che si sono spesso protratti negli anni a seguire», come spiegano dal comando di via De Lellis. E questo sarebbe avvenuto quotidianamente.
Un esempio. È bastata la risata innocente di un bambino, ritenuta «fuori posto», per far perdere le staffe alla maestra, che ha trascinato l’alunno per un braccio mettendolo in disparte rispetto a tutti gli altri, proferendo parole come «Te dò na papagna», «stai zitta non sei nessuno». Una prassi consolidata. Come le urla a pochi centimetri dal viso che facevo scoppiare i piccoli in un pianto. Le indagini condotte hanno consentito alla Procura di Viterbo di dare solidità ad una ipotesi di «abituale condotta di maltrattamento fisico e psicologico, anche in forma assistita».
«Quotidianamente – proseguono i carabinieri – i bambini sono risultati vittime delle ire della maestra che, con i propri atteggiamenti autoritari, aggressivi e violenti, li sottoponeva ad un clima di paura e frustrazione, fatto acuito dalla incapacità – in ragione della loro tenerissima età – di manifestare chiaramente ai genitori le loro sofferenze».