L'abuso dei ricorsi dei genitori: una sfida alla scuola
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L'abuso dei ricorsi dei genitori: una sfida alla scuola

La tendenza alla despecializzazione del sapere, che porta i genitori a credere di essere in grado di valutare le decisioni della scuola

L'abuso dei ricorsi dei genitori: una sfida alla scuola
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Antonio Rinaldis Modifica articolo

7 Settembre 2023 - 16.54


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Il ricorso è diventato l’ossessione della maggior parte dei docenti, dalla scuola elementare fino all’ultimo anno delle superiori e persino nelle prove finali dell’esame di stato. Ogni momento dell’attività scolastica è segnato dalla pietra d’inciampo che potrebbe vanificare ogni decisione presa dal singolo docente, come anche dal Consiglio di classe e persino dell’intero Collegio dei Docenti, che è il supremo organo decisionali collegiale della scuola italiana. Il ricorso è l’arma tagliente e minacciosa che possiedono i genitori dei ragazzi che si ritengono ingiustamente puniti dall’istituzione scolastica, e per questo motivo fanno appello alla giustizia amministrativa, in questo caso Il Tar, per ribaltare o annullare l’esito di scrutini ed esami. 

Tutto è iniziato con l’elogio della glasnost, della trasparenza, che dovrebbe tutelare il singolo cittadino di fronte allo strapotere della mostruosa macchina burocratica amministrativa dello Stato. Ogni atto, decisione della Pubblica amministrazione deve essere formalmente ineccepibile, altrimenti la sua efficacia è nulla. La ricerca di errori, irregolarità, refusi è però diventata lo sport nazionale per un esercito di avvocati che si è assunto il compito, peraltro del tutto legittimo, di scovare il possibile vulnus nelle maglie contorte della burocrazia. È il trionfo del delirio ipergarantista, che di fatto riduce ogni atto amministrativo a un arbitrio contestabile e persino annullabile. Il lavoro dei tribunali e delle corti di giustizia aumenta a dismisura e naturalmente le sentenze definitive vengono rimandate a un futuro incerto e lontano. La scuola non fa eccezione ed è sempre più diffuso il costume di impugnare bocciature con relativo ricorso al Tribunale amministrativo. 

L’ultimo caso riguarda la madre di una studentessa di un liceo artistico di Ravenna che è stata bocciata a settembre, che si è addirittura rivolta ai carabinieri per denunciare l’ingiustizia che avrebbe subito la figlia. L’episodio è soltanto l’ultimo di una lunga serie che vede contrapposti la scuola e i docenti da una parte, e dall’altra gli studenti e le relative famiglie, che sempre più spesso si schierano in maniera acritica e aprioristica dalla parte dei ragazzi per contestare le decisioni assunte dagli istituti scolastici. Tralasciamo il dato psicologico della rottura del patto generazionale tra adulti docenti e adulti genitori, che caratterizzava la scuola del passato, garantendo maggiore credibilità alla figura genitoriale, e soffermiamoci su un dato sociologico piuttosto diffuso. Il fenomeno dei ricorsi è l’indice di una sempre più diffusa tendenza alla despecializzazione del sapere, che attraverso internet e la rete, appare un bene universale e alla portata di ciascuno.

Grazie a internet siamo diventati tutti pedagoghi, medici professionisti, avvocati e per conseguenza presumiamo di essere esperti di Tutto; è la grande illusione della cultura prêt-à-porter, che non richiede studio, fatica, ricerca, perché è sufficiente aprire a caso una pagina di Google per credere di essere diventato esperto. Nato come una rivoluzione culturale che avrebbe permesso una democratizzazione del sapere, internet appare sempre di più come una immensa illusione di massa, che ha ridotto le differenze tra chi possiede realmente scienza e chi invece si nutre soltanto di opinione. Era un pericolo che gli antichi greci avevano denunciato. Nei regimi democratici l’opinione, il sapere superficiale e privo di fondamento, prevale sulla scienza, la chiacchera surroga la riflessione pacata, e la cultura di massa rischia di diventa una massa di sentito dire; la cultura che possiamo ricavare da internet sono dati, informazioni, che da soli non producono un vero sapere, ma alimentano la presunzione di conoscere. Ciò che viene meno è il lavoro della ricerca, la fatica che comporta un vero studio, che ha bisogno di tempi lunghi, di confronto, di profondità, tutti elementi   che non trovano ospitalità in un mondo che ha fretta e corre troppo velocemente. L’approccio superficiale e approssimativo di chi pretende di sapere ciò che non sa, risulta evidente dalle dichiarazioni della madre della studentessa, che riferisce di commenti di insegnanti, che avrebbero rassicurato la figlia, e parla di palesi ingiustizie che avrebbe subito, senza naturalmente precisare di che cosa si tratta. Colpisce l’atteggiamento di un genitore che non concepisce la possibilità che la figlia possa essere stata bocciata, dal momento che “avevamo già ordinato i libri per la classe successiva”; è l’idea davvero stravagante che ciò che desidero sia necessariamente destinato ad avverarsi, perché non è possibile neppure lontanamente immaginare che qualche ostacolo si frapponga tra le aspettative e la loro realizzazione. La sconfitta, lo scacco, non sono mai previsti e tutto deve procedere secondo il disegno generato dai desideri, come se ciascuno vivesse nel migliore dei mondi. 

Non sappiamo come finità il ricorso della famiglia della studentessa di Ravenna, perché, a differenza di quanto si pensa, secondo una ricerca condotta dal Corriere della Sera, solo un ricorso su dieci viene accolto. 

Anche alla luce dei dati statistici è quindi opportuno che da parte dei docenti si ritrovi la dignità e l’orgoglio di svolgere una professione altamente qualificata, senza lasciarsi intimorire da genitori faziosi e studenti velleitari.  

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