Lucano ci ha insegnato che l’accoglienza è una risorsa e non un problema (e nemmeno un reato)
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Lucano ci ha insegnato che l’accoglienza è una risorsa e non un problema (e nemmeno un reato)

Mimmo Lucano ha saputo proporre una visione umanista alla barbarie contemporanea

Lucano ci ha insegnato che l’accoglienza è una risorsa e non un problema (e nemmeno un reato)
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Antonio Rinaldis Modifica articolo

13 Ottobre 2023 - 00.39


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In un mondo sconquassato dal fervore della violenza, attonito di fronte ad una crudeltà che appare ogni giorno sempre meno giustificabile, finalmente una notizia che restituisce speranza a chi rimane ancora fermamente legato all’idea che un mondo Altro da quello nel quale siamo precipitati sia ancora possibile, e forse, persino necessario.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha stabilito che, degli innumerevoli reati che erano stati contestati in primo grado a Domenico Lucano, per i quali era stato condannato alla pena detentiva di tredici anni e sei mesi e una pena pecuniaria di circa cinquecento milioni di euro, soltanto uno era ammissibile, quello di falso in atto pubblico per una delibera del 2017 e per la quale è stato condannato a un anno e sei mesi con la condizionale, e pertanto la pena è sospesa. Con questa sentenza crolla miseramente l’impianto accusatorio della Procura di Locri, ma anche dei Pubblici Ministeri di Reggio Calabria, che avevano chiesto dieci anni di reclusione per reati che comprendevano accuse pesantissime quali associazione per delinquere, truffa, peculato, falso in atto pubblico e abuso d’ufficio. Ciò che decade è soprattutto il teorema che aveva ispirato la sentenza di 1° grado, ossia il sistema criminale intorno alla gestione dei migranti che avrebbe creato Lucano, con la finalità di lucrare per fini personali sia di carattere politico che economico. Lo scopo dell’impianto accusatorio, preparato dalle innumerevoli ispezioni della Prefettura di Reggio Calabria e della Guardia di Finanza, aveva l’obiettivo di smantellare il modello Riace, che era diventato un pericoloso esempio di gestione razionale e illuminata dell’accoglienza. 

Ci siamo occupati dell’esperienza di Lucano e di Riace in un libro apparso nel 2017 e abbiamo avuto modo di incontrare e di raccontare il villaggio globale che Lucano ed altri avevano creato nel minuscolo borgo calabrese della costa jonica. Senza entrare nel merito delle inchieste giudiziarie, preme sottolineare il valore di quell’esperienza, il suo significato politico e sociale. 

L’intendo di Lucano e del suo gruppo di utopisti era per alcuni aspetti esemplare e quanto mai semplice: dimostrare che l’accoglienza è una risorsa e non un problema, ma soprattutto proporre una visione umanista di fronte alla barbarie contemporanea. L’idea dalla quale l’esperienza di Riace si è sviluppata era quella di un cosmopolitismo integrale, secondo il quale le differenze di etnia, di religione, di provenienza non possono cancellare la sostanziale uguaglianza di tutti gli esseri umani, che in virtù della comune appartenenza un‘unica famiglia hanno il diritto di promuovere e sviluppare la loro vita terrena, senza essere discriminati  a causa della roulette demografica, a causa del fatto che sono nati nei luoghi più poveri del pianeta. La peculiarità del progetto di Riace consisteva nella convinzione che l’accoglienza non fosse la risposta emergenziale a un problema, ma piuttosto il presupposto per un rinnovamento dell’identità occidentale ed europea, che si sarebbe mescolata con altre culture, tradizioni, lingue, storie. Alla fortezza Europa chiusa nella difesa dei propri interessi egoistici, impaurita di fronte alla novità di popolazioni che chiedono opportunità e occasioni di vita, Riace aveva proposto il vocativo “Viens-toi!”, così come Derrida l’aveva formulato, come emblema della phylia, di una politica dell’amicizia che potesse riannodare i fili dell’umanità, invece di spezzarli. A Riace era rinata l’antica virtù greca della xenia, divenuta poi per paradosso anche il nome dell’inchiesta che avrebbe portato all’incriminazione di Lucano. Xenia per gli antichi greci era il dovere di ospitalità nei confronti degli stranieri, in particolare per i naufraghi. Xenia significa apertura, aiuto, solidarietà e rispetto per chi attraversa il mare e dal mare è minacciato. Xenia per Riace ha voluto anche ristabilire una sorta di Nemesi, dal momento che i riacesi per primi hanno conosciuto il dramma dell’emigrazione, pertanto la terra che ha visto partire i propri figli è anche la stessa che ospita i nuovi arrivati, in modo da sanare quelle ferite e ricreare quella polis che la povertà aveva dissolto. 

Al di là della soddisfazione per la vicenda personale di Domenico Lucano, al quale è stata restituita la possibilità di una vita finalmente normale e libera dalla tagliola giudiziaria che lo ha tenuto imprigionato negli ultimi anni, resta da comprendere il senso della sentenzia del Tribunale di Reggio Calabria. In un momento in cui le politiche securitarie, di difesa ossessiva dei confini nazionali ed europei sembrano l’unica risposta dei Governai alle ondate migratorie, qual è il valore dell’esperienza di Riace? 

L’utopia concrea di Lucano e del gruppo di persone di buona volontà che lo hanno sostenuto, sembra nuovamente attuale, razionale e umano. La globalizzazione delle merci e dei capitali ha oramai da tempo scardinato i confini degli Stati nazione, che appaiono forme anacronistiche, appartenenti ad una modernità che non esiste più. Il villaggio globale è l’unica risposta democratica e progressista ai mutamenti epocali che stanno modificando gli assetti e gli equilibri del pianeta. La città mondo è l’unica soluzione al rifiorire del nomadismo umano ed è venuto il momento di interrogarsi sulla sostenibilità degli Stati Nazione, così come si sono costituiti alla fine del Medioevo. 

Un filosofo tedesco dell’800, Hegel, sosteneva che nello stato di guerra si fortifica la coscienza di un popolo. Le nuove guerre in corso confermano l’intuizione di Hegel, ma suggeriscono anche una lettura simmetricamente opposta. Se la guerra è strettamente legata all’idea di territorio, di appartenenza, nella dialettica tra confine come limite difensivo e frontiera da oltrepassare, è forse giunto il momento di pensare ad una comunità mondiale libera, che, prendendo atto dall’inquietudine, che assale alcuni di noi e li trasforma in viaggiatori e nomadi, per necessità, ma anche per avventura, abbatta confini e identità stabili, per promuovere la mescolanza della famiglia umana, in una nuova koinè, pacifica e armoniosa. 

Utopia? Forse, ma quando smettiamo di pensare l’Altrove e ci rassegniamo alla maledizione del presente, siamo come anime senza speranza e senza vita. 

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