Come accade ormai da diversi anni, anche in quest’anno il Centro Astalli, la sezione italiana del servizio dei gesuiti per i rifugiati, ha organizzato un concerto in occasione del Natale, con loro e con i suoi collaboratori e amici, nella Chiesa di Sant’Andrea al Quirinale. Per motivi di lavoro seguo da molti anni eventi di questo genere, che siano cerimonie pontificie, celebrazioni o incontri di riflessione, confronto.
Io, fondamentalmente, credo nel Mediterraneo, di cui mi sento figlio, e credo che il Mediterraneo sia un mistero di congiunzione e incontro tra culture, fedi, realtà diverse (monti, vallate, deserti, porti, pianure) che collega e tiene uniti tre continenti, come fosse una cerniera. Solo grazie alla cerniera gamba destra e gamba sinistra da estranee inutili diventano parte di una sola utilità nella quale ognuno rimane ciò che è ma trovando una ragione di essere.
Credo in questo, in questo evidente mistero, che si riassume nella capacità di offrire a tutti i mondi rivieraschi l’olivo e i suoi prodotti, senza che uno possa dire all’altro di averlo educato o introdotto alla sua coltivazione. Dunque io non credo in Yahweh, in Dio, in Allah, in Abramo, in Mosè, in Gesù, in Maometto. Ma a quel concerto per la prima volta ho sentito di poter credere in tutti loro insieme, grazie a un canto. A questo concerto di solidarietà e amicizia con i rifugiati, con tutti i rifugiati che si sono ritrovati o si ritrovano a percorrere impauriti o smarriti il Mar Mediterraneo durante una certa notte, o certe notti, sono stati portati nella chiesa di Sant’Andrea canti in Sabir (la vecchia lingua franca del Mediterraneo) in swahili (lingua africana) in arabo, in serbo croato, in portoghese, in un canto di antica tradizione ebraico sefardita, in azero, in bulgaro, e poi uno in latino, quasi a chiudere e riassumere il tutto. Era il Cuncti simus concanentes, cioè “cantiamo insieme”. E’ una potentissima Ave Maria, che dopo tutti i canti precedenti ha un senso evidente. Dice il testo: Cantiamo insieme: Ave Maria. Mentre la Vergine era sola, apparve un angelo. Si chiama Gabriel: Ave Maria. E con una luce splendente disse: Ave Maria. E con una luce splendente ha detto ascolta, il più amato. Tu concepirai Maria: Ave Maria. E con una luce splendente disse: Ave Maria.
Per la prima volta ho pensato che Maria fosse il mare che unisce, da madre, tutti quei canti, quei viaggi, quei soccorsi, quelle speranze, quei dolori, quei sogni, quei desideri, tutti cantati in diverse lingue intorno a quello stesso mare, tutti intonati per procedere insieme, ma diversamente, intorno a quello stesso mare. Così mi è parso di poter e forse dover credere in tutto ciò in cui loro credono; Yahweh, Dio, Allah, Abramo, Mosè, Gesù, Maometto: tutti. E di poterlo fare perché quella Ave Maria ci ha fatto percepire che c’è una madre per tutti quei popoli, come il Mediterraneo è uno, così lei deve essere una, madre di tutti nel pieno rispetto di tutte le loro differenze, e di tutte le loro somiglianze. Cantano tutti, sognano tutti, amano tutti, desiderano analogamente la libertà, tutti. Ma se altrove lo fanno isolatamente, il Mediterraneo gli consente di farlo nello stesso spazio.
E’ stata una sensazione solo mia? Non penso. Il concerto non è una celebrazione liturgica, ma il pubblico sapeva che in chiesa c’è una forma, “un’educazione” che va rispettata. Ed è stato così dall’inizio fino a questa Ave Maria. Le sue note, il suo ritmo, hanno però mutato audience, l’hanno scaldato, l’hanno resa “una”. Musulmani, cristiani, ebrei, profughi, bambini, operatori, invitati, hanno avvertito di dover abbandonare la forma liturgica, la solitudine “chiusa” nella quale si sentivano chiusi, riguardosi, quasi ingessati, per lasciarsi andare al ritmo, allo scandire il ritmo dell’Ave Maria. Tutti insieme. Ognuno credendo in ciò in cui crede, ma tutti insieme, partecipatamente coinvolti nell’Ave Maria, canto-preghiera non più per me di una sola fede, ma di tutti nella loro fede. Perché una madre, che è come il Mediterraneo, la madre comune, unisce. E anche io, con loro, ho cantato, scandito l’Ave Maria. Perché anche noi agnostici, o post-credenti, siamo figli dello stesso mare, della stessa madre. Con la nostra identità di post-credenti.
Improvvisamente mi è sembrato che la voce di Barbara Eramo, l’oud, la chitarra e la voce di Stefano Saletti, il coro del Baobab Ensemble ci avessero convinto che i lager disseminati lungo le coste del Mediterraneo, dove si torturano o uccidono o derubano o schiavizzano i migranti, si fossero manifestati come i lager costruiti contro di noi, forse per noi. La nostra unità mediterranea, figli diversi nella stessa figliolanza mediterranea, ha fatto incontrare sguardi diversi divenuti simili, lingue diverse divenute reciprocamente indispensabili per capirsi, una preghiera ad alcuni estranei divenuta necessaria per scoprirsi non estranei.
La forza emotiva e coinvolgente della musica è nota a tutti, da sempre. Ma io non credo che sia stata soltanto la forza delle voci, degli strumenti e del coro del Baobab Ensemble ad aver creato almeno per qualche minuto questa percezione di identità mediterranea tra i presenti. E’ stata la forza della logica liberata dai paletti dell’identitarismo, della paura, del pregiudizio, della necessità di difendersi e non di sostenersi vicendevolmente, come il dimenticato Mediterraneo fa da secoli bagnando contemporaneamente rive diverse.