di Bob Otti
Da troppo tempo eravamo abituati alla sicumera, all’esposizione muscolare, all’ostentazione di sorrisi di plastica, alla declinazione machista del successo. Dove la timidezza e la malinconia erano diventati sentimenti da schernire di fronte al “barzellettismo” e allo “splendidismo” imperanti. O, peggio ancora, dove la buona l’educazione appariva destinata per sempre all’angolo di fronte alla rozzezza e all’arroganza. Pensate per un secondo a quanto tempo ha imperversato nelle nostre visioni la boria insolente della Santanché e a quanto poco televisiva sarebbe stata considerata la compostezza di Berlinguer, quel suo sguardo che molti di noi ancora ricordano. Provate a ripensare a Enzo Biagi e Pasolini in uno studio della Rai in bianco e nero e subito dopo sovrapponete l’immagine di Signorini che intervista Ruby rubacuori, le capre di Sgarbi, i fanghi di Sallusti. Forse si capisce meglio quello che sto cercando di dire.
Ho questa sensazione, per farla breve. Mi sembra, è più che una speranza, che la lunga stagione della tracotanza , il potere come edonismo, quell’omologazione “distruttrice di ogni autenticità” siano finalmente sulla via del declino. E che al “grande comunicatore” non siano più sufficienti gli strumenti che ha utilizzato per quasi vent’anni. La ricerca dei volti che viene prima dei voti; la bellezza dell’imperfezione che vince sulle facce di plastica.
Riprendo una felice espressione di Nichi Vendola per dire che in questo nuovo senso anche le scuse, anche l’ammissione pubblica di un errore rispetto a una parola usata male, sono un segno del tutto nuovo.