Non sono mai stato un rottamatore. Non mi piace il termine, non mi piace rottamare, né vado in cerca di rottami. Così come non mi piace di parlare di giovani e vecchi. Preferisco parlare di ricambio, avvicendamento, alternanza, cicli. Nel mio intendere il ricambio non si sostituisce chi è vecchio. Si sostituisce chi ha fallito. Non si rottama chi da troppo tempo occupa delle poltrone, piuttosto si avvicenda chi ha deluso, chi ha lavorato poco o male. E’ vero che la nostra società è affetta da una cronica gerontocrazia che ci rende ridicoli di fronte al resto del mondo ma è anche vero che non basta sostituire i vecchi con i giovani per ottenere un risultato. Quello che è evidente ma che molti fanno finta di non vedere è la tendenza all’autoconservazione, all’auto referenzialità, al mantenimento dello status a tutti i costi in ogni settore della vita pubblica. E quello che più preoccupa è che siamo di fronte ad una società talmente corporativa e chiusa che gli accessi delle nuove generazioni avvengono sempre attraverso forme di cooptazione e non di selezione, forme in cui il criterio adoperato per la scelta non sono né la professionalità, né il talento, né il merito ma soltanto, inevitabilmente, l’appartenenza e la fedeltà ad un clan, ad un gruppo o ad un capo corrente. In una società moderna e democraticamente avanzata, le classi dirigenti dovrebbero operare seguendo un solco frutto di una visione strategica che garantisca il bene comune guardando non solo all’immediato ma ad un prossimo futuro con un occhio alle generazioni che verranno per dare loro la possibilità di divenire esse stesse protagoniste di un progresso della società.
E invece si continua lungo la medesima strada, adeguandosi, adattandosi, camaleonticamente, a questo stato di cose e ad una legge elettorale che andava combattuta con le unghie e con i denti.
All’opposto a molti, agli auto referenziati, ai mestieranti della politica, quella scellerata legge è piaciuta, soprattutto a quelli che nelle liste ci stavano.
A me piacerebbe solo vivere in un paese normale. Un paese ove la legge elettorale permetta di avere un equilibrio nel rapporto fra rappresentato e rappresentante, principio base di qualsiasi convivenza democratica.
Attualmente questo rapporto in Italia è infranto. I cittadini non hanno più la possibilità di scegliere il loro rappresentante, né hanno più la possibilità di avere con loro un rapporto dialettico, partecipativo, bidirezionale e proficuo. Vediamo i nostri rappresentanti soltanto nei salotti televisivi e nelle piazze solo quando ci sono delle telecamere, prede anche loro della rivoluzione mediatica impostaci dal berlusconismo. Siamo passati dalla rappresentanza alla rappresentazione. E il vuoto lasciato dalla politica è stato riempito da mediocri, dilettanti, interessati o peggio, in alcuni casi, da personaggi del sottobosco della politica. Che scarse tracce lasciano del loro lavoro in parlamento se non nei bilanci alla voce stipendi.
E dopo anni passati in quelle aule ci vengono a raccontare che, se il Paese è in ginocchio, spiaggiato, senza fiato, è sempre colpa di qualcun altro, quasi fossero dei passanti imbattutisi per caso nel palazzo di Montecitorio.
Per di più, invece di camminare defilati, spesso preda delle loro pulsioni autoconservative ed autoreplicanti, ad ogni scadenza elettorale divengono preda di fantasie piene di deliri di protagonismo che affidano, senza remora alcuna, alla prima agenzia di stampa che trovano picchiando, come magli impazziti, su chi al contrario loro, tira la pesante carretta dei partiti.
Ma hanno fatto i conti senza gli osti.
Osti che sono il popolo, la gente, i milioni di elettori che davvero, oggi, non li sopportano più e che, prima o poi, chiederanno loro il conto.
Che sarà salato.
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