L’attesa manovra montiana è arrivata, almeno è stata annunciata nei suoi tratti fondamentali, e contiene, come era prevedibile, una bella legnata urbi et orbi. E tuttavia – non essendomi forse mai illuso troppo – quando ho visto i leader sindacali, la Camusso per prima, ma anche il redivivo – direi anzi risorto – Bonanni, indignarsi e reagire per gli interventi sulle pensioni, mi sono cadute le braccia. “Cosa vuoi – mi ha detto un amico a cena – quelli sono i loro iscritti, non possono fare altro”. Già, i sindacati ormai non rappresentano più il lavoro ma i pensionati che in effetti in Italia sono molti. In termini più retorici si potrebbe dire che mentre dalla seconda metà del ‘900 fino ad oggi declinava il modello dell’industria fordista e prendeva piede la globalizzazione economica accompagnata dalla rivoluzione tecnologica e dalla parcellizzazione del lavoro, i sindacati si ritiravano verso aree sempre più circoscritte e definite di rappresentanza e non coglievano più le trasformazione del mondo del lavoro. Per il resto: che si debba pagare la pensione a persone per 30 o 40 anni di seguito – perché questa è molto spesso la situazione attuale – mi sembra ormai insopportabile. Così come francamente ha del ridicolo il fatto che appaia un scandalo lavorare oltre i 60 anni. Il problema, semmai, può riguardare alcune – ristrette e ben definite – categorie di lavoratori.
Il fatto duro da ammettere è che ormai dal ricercatore universitario, alla commessa dei negozi, dagli addetti al terziario, all’infermiera, al giornalista, all’operaio edile e non, ai settori dell’alta tecnologia e via dicendo, sono milioni i lavoratori che oscillano fra precariato e libera professione, naturalmente con le relative differenze retributive (tutte però al di sotto del necessario). Non hanno quasi contribuiti pensionistici, quando li versano sono a carico loro e non delle aziende, non usufruiscono di nessuno dei diritti fondamentali dei lavoratori (ferie pagate, malattia…). Questa è la realtà del lavoro di buona parte del Paese, piaccia o non piaccia.
Credo si possa parlare di un conflitto di classe all’interno dello stesso corpo sociale; non è una semplice guerra fra poveri come usa dire la retorica di certa sinistra. Il fatto è che il modello di welfare elaborato negli anni ’60 – industria nazionale, contratti nazionali, spesa pubblica alle stelle, protezionismo – non funziona più, non ha più basi storiche nel mondo reale, per le nuove generazioni. Assistiamo per questo a uno suo lento e progressivo smantellamento senza che niente lo sostituisca e, di conseguenza, torniamo indietro di decenni. Rimane una fascia ampia di ipergarantiti che difende tenacemente le proprie conquiste di allora rivendicandole però in un mondo che non ne sopporta più i costi (e anzi li scarica sui figli e i nipoti).
Personalmente credo che avremmo bisogno di un welfare di tipo più scandinavo. Mi spiego: la qualità e l’efficienza dei servizi fanno la differenza rispetto all’imposizione fiscale e anche ai redditi che crescono poco. Scuole, asili, ambiente, trasporti, sanità e via dicendo sono i nodi sociali nevralgici che devono funzionare in un sistema – pubblico o misto pubblico-privato – garantendo ai cittadini (pensionati compresi) la qualità della vita al di là dei consumi (per altro servizi efficienti uguale risparmio forte). E poi le famiglie. Su questo sono d’accordo con i cattolici: a parità di reddito chi ha figli viene prima di chi non li ha. Io ho un figlio, vengo prima di chi non ne ha nessuno ma dopo di chi ne ha due o tre (del resto prole…tariato, evidentemente non a caso).
Se la manovra montiana dunque ha un profilo ingiusto, questo va rintracciato nel taglio di risorse ai comuni e alle regioni; inevitabilmente, infatti, gli enti locali ci penseranno poi loro stessi ad assestare la seconda ‘botta’ per garantire i minimi vitali di sopravvivenza collettiva. A questo punto ci sarà una tassazione “per salvare l’Italia” e un’altra, locale, per andare avanti nella vita quotidiana. E’ un po’ troppo direi. Allora, se questo è il quadro – e qui c’è un altro punto – bisogna cominciare a porre la questione degli stipendi, cioè dei livelli di reddito a cominciare dal lavoro precario; il primo diritto infatti è la giusta retribuzione (fronte sul quale la sinistra dorme sonni profondi…).
A livello pubblico, dunque, la retorica dei tagli generici contro le inefficienze è per me sbagliata. Le maestre dell’asilo dove va mio figlio dovrebbero essere pagate assai meglio per il lavoro delicato e faticoso che fanno. Nelle amministrazioni i funzionari che lavorano come si deve vanno premiati, ma le rilevanti sacche di inefficienza e degrado andrebbero colpite, invece sono difese a spada tratta dai sindacati. Mi piacerebbe poi che gli ordine professionali, vero retaggio castale che frena talenti, venissero aboliti a cominciare dal mio, quello dei giornalisti.
Troppo capitalismo? Poco capitalismo!
E’ curioso, infine, che nessuno dica a Emma Marcegaglia una verità che è sotto gli occhi di tutti. I miliardi di tangenti che si pagano in Italia sono dovuti al fatto che le imprese, pubbliche e private, non vogliono stare sul mercato. Non c’è appalto pubblico, nel nostro Paese, di cui non si conosca in anticipo il vincitore. Addio concorrenza, addio ricerca, addio gara per abbassare i costi, addio innovazione, addio mitica crescita insomma, e quindi addio a nuovi posti di lavoro. Al contrario ben venga il sottogoverno e lo spreco a palate di denaro pubblico. E’ qui che si tocca con mano l’importanza della questione legalità. Infine: certo il ritorno dell’Ici è pesante per molti durissimo; del resto chi l’aveva tolta, bravo in demagogia, vinceva le elezioni ma sfasciava una nazione.