Appassionato conoscitore di Galileo nonché brillante divulgatore scientifico, lo storico della scienza Enrico Bellone (morto prematuramente nel 2011) guardando allo scempio inflitto in Italia all’istruzione e alla ricerca pubblica da una politica miope e gretta citava spesso una nota che il genio toscano aveva segnato sulla copia del suo Dialogo da cui non si separava mai: «Le novità possono mettere a repentaglio le Repubbliche e gli Stati, e allora chi ha il potere, che è ignorante, diventa giudice e piega gli intelligenti».
Poche frasi che dimostrano quanto il grande scienziato fosse consapevole a cosa andava incontro sposando la nuova cultura scientifica rinascimentale. Quella nata a cavallo tra il ’500 e il ’600 all’esterno delle università e fondata sull’idea del confronto, della «disputa attorno a qualsiasi cosa». Sia essa su matematica, fisica o ingegneria. Era una cultura pubblica, democratica quella che coinvolgeva Galileo. Ed è nel suo tempo che comincia a diffondersi quel metodo, ancora attuale, secondo cui chi sostiene una teoria viene invitato a esporre pubblicamente le ragioni per cui pensa che ciò che sta dicendo è vero. Un metodo che dimostra tutta la sua solidità circa 250 anni dopo con la teoria evoluzionista di Charles Darwin. Quando cioè si verifica un ulteriore salto di paradigma che apre la strada a ricerche nel campo della biologia impensabili fino ad allora.
La «disputa attorno a qualsiasi cosa» è ancora oggi il motore della ricerca. E ancora oggi, 400 anni dopo il “processo Galileo”, a gettare sabbia dentro questo motore per tentare di piegare il processo scientifico a logiche politiche o religiose, ci sono numerose istituzioni sia nazionali che internazionali. Pure in Occidente. Emblematico in tal senso è l’esempio della ricerca nel campo delle cellule staminali. Che vede da un lato la comunità scientifica mondiale impegnata nella verifica del rispettivo ruolo che le cellule embrionali e quelle adulte potrebbero avere nel progresso della medicina rigenerativa.
In quel campo cioè che si ripropone di creare in laboratorio organi e tessuti umani per “sostituire” quelli danneggiati da gravi malattie genetiche e degenerative. E dall’altro una serie di embarghi, paletti, legacci e lacciuoli di volta in volta imposti da uno Stato, da una comunità di Stati o da un’istituzione giuridica internazionale ai ricercatori, avanzando motivazioni che con la scienza e il bene pubblico non hanno nulla a che fare.
Alla luce del [url”premio Nobel”]http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=36937&typeb=0&08-10-2012–Nobel-a-Yamanaka-medicina-rigenerativa-il-futuro-e-gia-qui-[/url] per la Medicina assegnato a John Gurdon e Shinya Yamanaka per il loro decisivo contributo allo sviluppo della ricerca medica rigenerativa, per capire quali scenari si aprono sia a livello scientifico che politico, Babylon Post ha rivolto alcune domande a Elena Cattaneo che dirige il laboratorio Cellule staminali e malattie degenerative dell’Università di Milano. La professoressa Cattaneo è famosa nel mondo per i suoi studi sulla Corea di Huntington, una malattia degenerativa incurabile che (per semplificare) presenta alcune analogie con il morbo di Parkinson.
Lei ha raccontato più volte, anche a chi scrive, che «oggi riusciamo a produrre in laboratorio vere cellule neuronali solo dalle staminali embrionali umane. Possono essere usate per capire la malattia o studiare strategie di trapianto». Come si inserisce in questo contesto la ricerca di Yamanaka sulle staminali adulte?Yamanaka ha scoperto che possiamo ottenere cellule simili alle staminali embrionali riprogrammando cellule adulte della pelle. Questa volontà di riportare le cellule adulte allo stadio di staminali embrionali ci fa anche capire bene l’importanza scientifica di disporre di staminali embrionali. Le staminali embrionali sono infatti fenomenali perché pluripotenti e quindi da esse si ottengono tutte le cellule specializzate del nostro organismo. Da queste cellule otteniamo neuroni che altrimenti non riusciremmo a “creare” da nessun’altra staminale. Oltre alle staminali embrionali “vere”, derivate dalle blastocisti sovrannumerarie, grazie al lavoro di Yamanaka disponiamo ora anche di una staminale embrionale “surrogata”, artificiale, che possiamo ottenere partendo dalla nostra pelle adulta. Si tratta di una scoperta che ha rivoluzionato la biologia e che potrebbe fare molto anche dal punto di vista farmacologico e medico. Si tratta di ipotesi che vanno perseguite e dimostrate. Ecco perché è importante continuare a lavorare in parallelo, con staminali embrionali vere e con le nuove embrionali surrogate, confrontandone limiti e potenzialità.
Molti suoi colleghi ritengono probabile che prima o poi si scoprirà che la tecnica della riprogrammazione è ideale per ottenere modelli di malattia in vitro. È d’accordo?Sono anche io di questa idea. Riprogrammando fibroblasti da pazienti con malattie, è infatti possibile ottenere in vitro un modello paziente-specifico di malattia, su cui studiare meccanismi e sviluppare farmaci. Questo rappresenta oggi il campo più battuto dalla ricerca con le staminali riprogrammate. Ovviamente è anche possibile ottenere cellule specializzate dalle cellule riprogrammate, per esempio neuroni. Ma quanto questi neuroni ottenuti da cellule riprogrammate siano veramente uguali a quelli ottenuti dalle embrionali “vere” e quali siano più adatte all’eventuale trapianto è ancora da capire. Non sappiamo nemmeno se le staminali, in generale, diventeranno mai uno strumento di trattamento per le malattie neurodegenerative. Ecco perché non possiamo lasciare perdere nessuna possibilità. Le cellule riprogrammate, proprio perché riportano indietro nel tempo un DNA adulto, possono trasportare la memoria dell’età o della specifica cellula specializzata da cui sono state originate. Potrebbero, una volta trapiantate, tornare allo stato nativo, generando in loco i fibroblasti di partenza. Sono tutte ipotesi da verificare e confutare. Ma oggi certamente c’è una scoperta che permette di pensare a strategie prima inimmaginabili.
Esattamente un anno fa la rivista Nature pubblicava il risultati eccezionali dello studio che Lorenz Studer (Sloan Kettering di New York) sta conducendo sul Parkinson. Che cosa è cambiato dodici mesi dopo?Studer è un pioniere della ricerca sulle staminali embrionali e del loro potenziale impiego nelle malattie neurologiche. Nel 2011 aveva dimostrato che poteva istruire le cellule staminali embrionali umane a generare i neuroni dopaminergici che degenerano nel Parkinson. Il suo protocollo era fenomenale perché basato sui principi dello sviluppo cerebrale che trasferiva in vitro, in un piattino di laboratorio, trasformando cellule staminali indifferenziate nei neuroni desiderati, ottenendone una quantità e con una qualità mai vista prima. Il trapianto di queste cellule nel cervello del topolino e del ratto aveva poi dimostrato che esse differenziavano correttamente in vivo producendo un significativo miglioramento comportamentale nell’animale modello sperimentale della malattia. Il gruppo di Studer, insieme a quello di Jeff Kordower di Chicago, ha ora iniziato sperimentazioni nella scimmia per valutare gli esiti del trapianto. Hanno dimostrato che le cellule sopravvivono e maturano e stanno ancora lavorando per capire se e quanto, in questa specie, siano in grado di normalizzare i circuiti compromesse. I risultati di questi esperimenti sono ovviamente molto importanti e dobbiamo attendere.
A che punto è la sua ricerca sulla Corea di Huntington?Nell’ambito della malattia di Huntington siamo meno avanti rispetto al Parkinson ma proprio recentemente ci sono state alcune importanti dimostrazioni che le stesse staminali embrionali di cui sopra, diversamente istruite in laboratorio, sono in grado di produrre i neuroni che muoiono nella malattia. In questo caso abbiamo ottenuto un’ottima qualità ma dobbiamo ancora lavorare sul numero di neuroni ottenuti e non possiamo ancora dire nulla sul loro trapianto.
Sempre un anno fa, fece scalpore la sentenza della Corte di Giustizia europea che ha vietato di brevettare medicinali ricavati da cellule staminali embrionali umane derivate (anni fa) da blastocisti in sovrannumero. Quali conseguenze ha prodotto quella decisione sull’attività dei laboratori europei?Spero ancora che questa sentenza possa essere in qualche modo rovesciata perché, in tutti gli ambiti della società, il brevetto è uno strumento di tutela pubblica dell’invenzione. È l’occasione per sperare di raccogliere forze e risorse per verificarne l’applicabilità e l’utilità. Senza brevetti è probabile che alcune linee di ricerca, seppur produttive nei laboratori, non trovino sostegno nella loro trasferibilità. Non abbiamo ancora percezione di quale sia il danno allo sviluppo di possibili strumenti per migliorare la salute umana. È certo comunque che questa sentenza non aiuta e non so nemmeno quanto sia “legittima”. Essa ostacola strade, limita il progresso, lo scambio tra nazioni, e lo sviluppo di terapie che hanno anche un risvolto economico-sociale.
Nessuna legge in Italia vieta l’impiego di cellule embrionali in laboratorio. Lei stessa però, nel 2009, è stata protagonista di una battaglia contro la decisione dell’allora ministro Sacconi di precludere – senza alcuna motivazione – l’accesso al bando pubblico ai progetti sulle embrionali. All’ultimo congresso dell’associazione Coscioni per la libertà di ricerca scientifica lei ha raccontato di un suo recente viaggio in Iran e del suo “incontro” con il mondo della ricerca iraniano. Un racconto appassionato e appassionante dal quale sono emerse delle analogie con l’Italia…Il mio soggiorno in Iran è stato breve. Ero partita per questo Paese per curiosità, per conoscere la loro ricerca sulle cellule staminali, i loro studenti, per vedere le loro rosette: si tratta di strutture di cellule organizzate che si formano nei piattini di laboratorio a partire dalle staminali embrionali e che mimano lo sviluppo del sistema nervoso. In tanti mi dicevano “sei matta, tra un po’ gli sganciano una bomba”. Come se si trattasse di un atto dovuto, come se non vi fossero persone sulle quali quella bomba rischiava di cadere. Sono atterrata in un Paese pieno di deserti splendidi e di umanità, di giovani che comprendono bene che qualcuno sopra la loro testa sta rubando la loro vita. La domanda più frequente che ricevevo era “cosa pensi dell’Iran, e cosa pensi degli Iraniani”.
Penso che siano persone come noi, forse più pacifiche, cariche di speranze, intrappolate in un destino attuale diverso. Ho incontrato giovani che vogliono studiare, capire, impegnarsi, ma qualcosa pare impedirgli di raggiungere la conoscenza. Da Teheran ho cercato di collegarmi ai siti web dei quotidiani italiani. E ogni volta mi veniva legato l’accesso. Non potevo crederci. Nel 2012 non potevo leggere su cosa stava succedendo nel mio Paese distante solo poche ore di volo. Eppure era così. Sono 20 milioni i siti web censurati. Ma le persone vogliono sapere e gli studenti vogliono studiare. Girando l’Iran, non ho incontrato nessun altro straniero. In un’acropoli straordinaria di 4000 anni fa, l’attrazione turistica ero io e i miei pochi colleghi che avevano partecipato a quel viaggio di studio. Le persone chiedevano di far fotografie con noi.
Alcuni ci dicevano che eravamo i primi stranieri che incontravano nella loro vita. Rifacevano le stesse due domande, come se avessero necessità di qualcuno che gli smentisse quell’immagine odiosa che l’estero ha del loro Paese… Mi è venuta in mente la rabbia che anche io ho provato per anni nel sentirmi rappresentata all’estero dai comportamenti improponibili e dalle inadempienze di alcuni nostri politici del passato. In Iran, mi vedevo anche in un Paese “chiuso”. Per l’embargo, i miei colleghi a Teheran non possono acquistare gli anticorpi per colorare le rosette, per capirne le caratteristiche. Ma mi è sembrato un Paese pieno di dignità, le cui donne, bellissime, usano quel velo imposto per legge come un oggetto di ornamento, colorato, colorano gli occhi, colorano le labbra, hanno sorrisi splendidi, vogliono un futuro migliore, soffrono per ciò che non hanno e per le poche possibilità di conoscere e muoversi. Questo mi ha ricordato ancora una volta quanto la conoscenza sia l’elemento attraverso il quale le persone e i popoli acquisiscono maggiore dignità e quanto, in fondo, chi ne limita l’accesso non miri ad altro che a minare la dignità delle persone. Ovunque, la lotta per la conoscenza è sempre una giusta lotta.
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