di Carlo Dore jr
Renato Soru completa la sua scalata alla segreteria del Partito Democratico della Sardegna proprio nel giorno in cui Renzi, rottamando definitivamente gli ultimi presidi di quel che resta della sinistra italiana, si pone come unico riferimento del Partito della Nazione, forte della benedizione di finanzieri, imprenditori rampanti, seguaci della prima ora e novizi folgorati sulla via della Leopolda.
Soru completa la sua scalata tra le ovazioni dei soliti fedelissimi e gli applausi dei nemici di un tempo, riposizionatisi sotto le insegne del neo-segretario ora per rinnovata convinzione, ora per assecondare insondabili logiche di realpolitik, ora in quanto spinti dal naturale spirito di sopravvivenza. Completa la scalata ad un partito ormai “pacificato”dal culto dell’Uomo solo al comando, costretto a trincerarsi dietro uno strano unanimismo di facciata, utile a coprire la mancanza di un progetto politico di ampio respiro.
Esiste un’evidente sintonia tra le dinamiche proprie della “comunità di destino” a cui l’ex Governatore ha di recente fatto riferimento, nel tentativo di teorizzare il superamento della dicotomia capitale-lavoro, e le logiche ispiratrici degli ultimi capitoli dal Vangelo secondo Matteo: muore la cultura della sinistra del lavoro e per il lavoro; viene superata la concezione del partito inteso come centro di formazione della classe dirigente e come strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese; la stessa idea di democrazia parlamentare delineata dalla Carta Costituzionale si riduce al vuoto simulacro di un’epoca che non esiste più.
Le ragioni dell’impresa prevalgono sulle posizioni del sindacato, i finanzieri che dissertano sul superamento del diritto di sciopero meritano più attenzione delle rivendicazioni di una piazza che invoca diritti e tutele, il dissenso viene liquidato come l’estremo tentativo di reazione di un gruppo di potere ormai privato di ogni massa di manovra, il refrain del 41% si impone sui riferimenti ad una cultura politica radicata in un secolo di battaglie democratiche. Una dimensione perfetta per esaltare la vena plebiscitaria di Renzi, forte di un crescente consenso da brandire contro gufi e rottamati; una dimensione perfetta per assecondare la “comunità di destino” teorizzata da Soru, prototipo del self made man dichiaratosi da sempre estraneo ai polverosi riti della politica tradizionale.
Eppure, mentre si spegne l’eco degli ultimi applausi sparsi tra Cagliari e Firenze, sulla scalata dei vincitori continua a gravare il peso di un interrogativo inevaso, l’ombra di un dubbio irrisolto, il fantasma di un equivoco troppo a lungo ignorato. Privato di una cultura di riferimento, disconnesso sentimentalmente dal cuore pulsante del proprio popolo, ridotto ad una sovrastruttura “capace di parlare all’intero Paese” e “di raccogliere consensi a destra come a sinistra”, il nascente Partito della Nazione non rischia di crescere come una forza senz’anima, destinata, prima o poi, ad essere risucchiata da quello stesso vuoto ideologico di cui oggi intende alimentarsi?
Gli oplites della Leopolda si limitano ad un’indifferente scrollata di spalle: il Partito della Nazione si sostiene sul mito del 41%, il Partito della Nazione guarda solamente al futuro, al successo di Renzi, al carisma di Soru. Leader discussi e mai discutibili, in diretta empatia con il popolo delle primarie, antepongono la loro individualità di uomini soli al comando a culture e progetti politici. Fino a quando il venire meno di quell’empatia non ne appannerà l’immagine di eterni vincenti; fino a quando spirito di sopravvivenza ed insondabili logiche di realpolitik non ritrasformeranno i fedeli alleati di oggi negli scatenati oppositori di ieri. Fino a quando la realtà della crisi sociale in atto non li costringerà a confrontarsi con l’assenza di un riferimento culturale a cui guardare, di un progetto politico a cui ispirare la loro azione: per non essere risucchiati dal vuoto ideologico su cui hanno cercato di costruire la loro forza senz’anima.
Argomenti: matteo renzi