La caduta di Marino e l'aurea meschinitas
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La caduta di Marino e l'aurea meschinitas

Perché un medico ancora giovane sente il bisogno di lasciare la sua professione per dedicarsi alla politica? La risposta che Marino diede a Governi non fu convincente.

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8 Ottobre 2015 - 16.38


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di Giancarlo Governi

Qualche sospetto su Marino mi venne alcuni anni fa quando il mio amico Gianni Borgna mi invitò ad un incontro con il professore, allora senatore, che si era candidato alle primarie del PD come terzo incomodo della competizione fra Bersani e Franceschini. Conoscevo la sua storia professionale per averla letta da qualche parte, di valente chirurgo, uno di quelli che avevano sperimentato i primi trapianti di fegato che, prima di loro, erano considerati impossibili.

Andai a questo incontro proprio per fargli questa domanda: perché uno scienziato della medicina ancora giovane sente il bisogno di lasciare la sua professione per dedicarsi alla politica? La risposta che mi dette fu molto confusa e per niente convincente perché non andò al di là di generiche vocazioni all’impegno civile.

Alle primarie, vinte da Bersani, Marino non andò molto oltre il 10 per cento e quindi ritornò nell’anonimato politico. Fino a circa tre anni fa quando si propose come candidato sindaco di Roma. Eletto alle primarie, si rivolse a Gianni Borgna, allora già malato, e vi andò ad audiendum verbum da chi aveva pilotato in maniera mirabile la politica culturale di Roma negli anni d’oro di Rutelli e di Veltroni.

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Marino ascoltava rapito e prendeva appunti e chiese la collaborazione di Gianni, il quale si mise a sua disposizione soltanto per consigli personali e non per incarichi ufficiali. Gianni morì sei mesi dopo l’elezione di Marino a sindaco ma dal Campidoglio non ricevette mai una telefonata. Al contrario Marino permise che la candidatura non richiesta di Borgna alla presidenza del Teatro di Roma venisse respinta da un membro della maggioranza, tal Peciola.
Marino volle dare subito un segno tangibile del suo ruolo decidendo la pedonalizzazione della Via dei Fori. Una decisione che voleva sottolineare l’accento che si sarebbe messo sulla tutela e valorizzazione dei beni culturali. E poi una serie di decisioni perlomeno bizzarre, come la scelta della bicicletta come mezzo di trasporto, che voleva dire preclusione all’uso della macchina con autista agli assessori e anche agli alti dirigenti del Comune. Una decisione che qualcuno, forse del suo stesso staff, gli fece pagare a caro prezzo dimenticandosi di segnalare la sua auto privata (la famosa Panda rossa…) al computer che sanziona gli ingressi nella zona a traffico limitato, a cui Marino aveva diritto in quanto residente nella zona stessa. La “Panda rossa” diventò motivo di dileggio del Sindaco il quale decise di pagare una serie di multe elevate nei confronti della sua auto privata.

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Poi ci sono stati i viaggi in America che lo sorprendevano assente ogni volta che a Roma sarebbe stata indispensabile la sua presenza, le bugie sugli inviti, insomma tutta una serie di circostanze che hanno fatto di Marino agli occhi dei cittadini romani un personaggio assente.
Ora questa storia della carta di credito che da al personaggio un’aura meschina, e all’alta figura istituzionale una caduta di credibilità e di rispetto. Marino agli occhi dei romani da tempo non è più il loro Sindaco e quindi le dimissioni, a cui lui ha resistito per troppo tempo, sono inevitabili. Così Marino con il suo comportamento ha vanificato quello che lui ha indubbiamente fatto per opporsi al marcio creato dalla amministrazione precedente ma anche con la responsabilità dello stesso partito che lo ha candidato, quel Partito Democratico che aveva trovato una forma di convivenza e di coabitazione con quelli che avevano aperto il capitolo doloroso e vergognoso di Mafia Capitale.
Avevamo capito che Renzi ha fatto di tutto per tenere in piedi Marino perché sa che dopo Marino ci sarà inevitabilmente il diluvio ma io penso che così ragionando abbia fatto un errore di valutazione, perché la situazione di Roma, della Capitale d’Italia, andava affrontata subito, con il bisturi. E quando il bisturi è la sola forma di cura non è assolutamente dilazionabile.

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Ora è necessario non coinvolgere Roma nella battaglia elettorale proprio nell’anno giubilare che va affrontato con la dovuta energia ma anche con la dovuta serenità. C’è un solo modo, a mio avviso: considerare il Giubileo come un evento straordinario e quindi affidare tutto il Campidoglio al commissario prefettizio che assuma anche i poteri ordinari di Sindaco, fino alla fine del l’evento eccezionale e poi riportare a Roma un Sindaco e un Consiglio comunale che i romani saranno chiamati ad eleggere in un clima più sereno.

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