di Cesare Gigli
Nell’atmosfera da perenne campagna elettorale che caratterizza la politica Italiana, diventa ormai sempre più difficile cercare di esercitare il proprio diritto di voto in maniera informata. Questo è vero, a maggior ragione, per il referendum che si terrà a breve sull’accettazione o meno della riforma costituzionale approvata recentemente, la cosiddetta riforma “Boschi-Verdini”. Qualsiasi dibattito a cui si partecipa o si assiste, a qualsiasi livello, dal bar sotto casa al confronto moderato da Mentana, scade prima o poi (più prima che poi) in discussioni dove le parti sono più tese a “tifare” che non ad esporre le proprie ragioni ed a confrontarle con quelle di chi ha opinioni diverse dalle sue. Questo semplicemente perché i fatti non vengono ormai più analizzati con sufficiente profondità, ragionando invece per slogan o per argomenti semplicistici da rovesciare sull’interlocutore.
Il dibattito (ma è forse più corretto dire lo scontro) tra il Presidente del Consiglio Renzi e Marco Travaglio di giovedì 22 settembre ad “Otto e Mezzo” su La7 è stato, a nostro modo di vedere, uno dei più chiari “Come Volevasi Dimostrare” della tesi sopra enunciata. Gli argomenti sono stati affrontati solo di sfuggita e tramite slogan ad effetto, e la maggiore parte del dibattito è stato un continuo rimpallarsi di accuse e sfottò che erano più adatti ad una gara di “wrestling dialettico” che non ad un’analisi politica che potesse aiutare chi deve votare a farsi un’idea, o a chiarirsela. Oltretutto, non essendoci quorum per questo tipo di referendum, l’opzione “non voto” equivale a far decidere altri al posto nostro.
Che Renzi abbia una buona parte di responsabilità in tutto questo è fuori di dubbio: la sua debordante personalità (stavamo per scrivere l’ego) è tale da personalizzare anche una sua giocata per la sestina del superenalotto, trasformandola in un referendum a favore o contro la sua persona. Ma lo stesso si può dire dei suoi antagonisti, ed il nervosismo del direttore del “il Fatto Quotidiano” in quel dibattito dimostra che questa personalizzazione, alla fine, è stata accettata anche da chi, per mestiere, dovrebbe invece “neutralizzare” l’oggetto del contendere basandosi, appunto, solo sui fatti.
Proviamo quindi a vedere, in sintesi, di cosa tratta questa riforma costituzionale, cercando di spersonalizzarla il più possibile, e provando a vedere se i cambiamenti che apporta alla nostra “magna charta” siano positivi o meno. Solo così, infatti, si potrà andare a votare con un’opinione precisa che non sia affetta dalla personale simpatia o antipatia per una delle due parti in causa. Stiamo decidendo della sorte di alcuni articoli della costituzione, non della carriera politica di qualcuno.
La riforma proposta si può riassumere in cinque punti fondamentali:
La riforma costituzionale non ha nulla a che vedere con la legge elettorale. Sembra quasi ovvio dirlo, ma nelle varie discussioni pro o contro molto spesso tale assunto tende ad essere dimenticato. La riforma costituzionale che viene presentata per l’approvazione dei cittadini tramite referendum non modifica in alcun modo l’equilibrio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario che fu deciso dai padri costituenti nel biennio 1946-48. Il rischio di “regime”, da questo punto di vista, è inesistente. Ogni deputato continuerà a rappresentare la nazione senza vincolo di mandato, ed il governo avrà comunque bisogno della fiducia del potere legislativo per poter operare. Diverso è il discorso sulla legge elettorale, che stabilendo un premio di maggioranza e consentendo all’elettorato di votare solo una minima parte dei suoi rappresentanti in parlamento, di fatto rende il legislativo molto meno indipendente. Allo stesso modo, chi dice che la Costituzione è “stravolta” perché vengono cambiati oltre 40 articoli su 138, dovrebbe anche dire per onestà che la stragrande maggioranza di tali variazioni sono puramente semantiche o logiche, avendo abolito – ad esempio – le Province (tutti gli articoli che le citano devono essere modificati), o la fiducia del Senato (anche qui, tutti gli articoli che parlano della “camere” devono essere modificati con “La Camera dei deputati”). Insomma cambiamenti necessari a seguire la logica della riforma. Il rischio – se così vogliamo chiamarlo – del regime è nell’Italicum, la nuova legge elettorale al vaglio della Corte Costituzionale. Per fare un esempio lontano solo 90 anni, Mussolini cambiò in senso autoritario lo Statuto Albertino solo dopo aver cambiato le legge elettorale (legge Acerbo), che gli consentì di avere un parlamento tutto per lui.
La parte più importante della riforma riguarda la trasformazione del Senato in un’istituzione diversa da quella attuale, eliminando in pratica il bicameralismo perfetto. Che questo dovesse essere superato credo che non possa essere oggetto di discussione, a meno di non rendere il Senato sostanzialmente diverso dalla Camera dei deputati tramite meccanismi elettorali diversi (cosa che i padri costituenti fecero, rendendo diversa la durata delle due Camere e con meccanismi di voto diversi). Il senato “nuovo” sarà composto da 100 elementi, 95 provenienti da realtà locali e 5 nominati dal Presidente della Repubblica, non più a vita, ma solo per 7 anni. Rimarranno senatori a vita solo quelli esistenti oltre che gli ex Presidenti della Repubblica. Decadranno da senatori quando decadrà il loro mandato elettorale. Non è allo stato attuale molto chiaro come verranno selezionati i 95 senatori provenienti da regioni e comuni (sindaci e consiglieri o presidenti di regione). L’art. 57 della costituzione “riformata” recita infatti: “Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio.” In pratica, è tutto demandato ad una legge attuativa che è di la da venire.
Di cosa si occuperà questo Senato? Questo è il punto più dolente di tutta la riforma: l’art.70 è stato adattato (forse è più corretto dire stravolto) per evidenziare le differenze di competenze delle due Camere.
Leggiamo la parte “incriminata”: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere(qui si fermava la costituzione originale, il resto è ciò che tale riforma aggiunge, ndr) per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.”
Ora, la prima cosa che si nota è la sintassi pesante (oltre duecento parole suddivise in solo tre periodi, di cui uno praticamente infinito). E non è una questione di forma, ma di contenuto. Come dice Gianrico Carofiglio nel suo bel libro “Con parole precise”, “Occuparsi del linguaggio pubblico e della sua qualità non è […] un lusso da intellettuali o un esercizio da accademici. E’ un dovere cruciale dell’etica civile”. Ed un periodo di oltre 160 parole, che richiama, tramite svariati incisi, 9 altri articoli disattende tale dovere.
E poi, cosa dice? Che i senatori si occupano assieme alla Camera dei deputati di alcune leggi e non di altre (quindi la differenza cruciale è che non votano la fiducia al Governo, non che non votano le leggi). Non solo, ma anche le leggi che non sono comprese in quella pletora di articoli e commi possono essere vagliati dal Senato, che può proporre modifiche alla Camera che poi deve accettarle o meno. Dove sta, quindi la differenza con adesso? In quale modo tale nuovo, arzigogolato meccanismo, può velocizzare il lavoro del potere legislativo, e soprattutto, come può migliorare l’Italia? Io, francamente, non ne vedo alcuno.
Un’altra, importante, modifica riguarda la partecipazione popolare alla promulgazione di leggi. Vi sono tre modi in cui ciò può avvenire:
– Il Referendum abrogativo rimane, posto che si raggiungano le 500.000 firme per promuoverlo, così come rimane la soglia della partecipazione del 50%+1 degli aventi diritto al voto per renderlo efficace. Si introduce solo un’altra, per così dire, facilitazione: Se i firmatari sono 800.000, la soglia della partecipazione diventa il 50%+1 dei votanti delle ultime elezioni politiche. Un cambiamento, minimo, ma tutto sommato positivo.
– Viene anche introdotto un referendum propositivo tramite l’ultimo comma dell’articolo 71 “riformato”. Leggiamolo: “Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché́ di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità̀ di attuazione.”. Ora, non so a voi, ma a me sa tanto di specchietto per le allodole: non si propone una legge, ma “un indirizzo”, e le modalità di attuazione sono da definire ancora con legge ordinaria. Il che vuol dire anche che ciò potrebbe non avvenire mai.
– Per quanto riguarda invece le leggi di iniziativa popolare, le firme necessarie per presentarle in parlamento triplicano: da 50.000 a 150.000. Ma – leggiamo dal testo che dovremmo votare, sempre l’art.71 – “La discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari.” In pratica, non sarà più possibile seppellire tale legge sotto pastoie burocratiche attendendo la fine della legislatura, ma ne sarà garantita la discussione ed il voto di approvazione. Come? Con dei “regolamenti parlamentari” che però attualmente non ci sono. Potevano inserirli nel testo? Certo: lo hanno fatto, guarda un po’, nel caso di leggi governative, dove, come si legge nell’art. 72 “il Governo può̀ chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità̀ all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione”. Potevano inserirli, quindi, ma non lo hanno fatto. Lascio al lettore le considerazioni su tale cosa.
Vengono abolite le province ed il CNEL, enti ormai obsoleti. Bene, sono sicuramente cose positive, e capisco che, essendo entrambe queste istituzioni previste dalla Costituzione, sia necessaria una riforma costituzionale. Certo, sarebbe stato preferibile che ci fosse contestualmente anche un progetto, non dico una legge, da parte di chi ha scritto tale riforma, su come tale abolizione verrà gestita.
Si eliminano (almeno così sembra di capire, anche in questi articoli la sintassi non aiuta affatto) le “competenze concorrenti” tra Governo, Regioni e Comuni. Ci saranno quindi chiari limiti nelle responsabilità di ognuna di tali istituzioni in materia di gestione della cosa pubblica. Si parla infatti di “competenza esclusiva”. Bene, era una delle conseguenze nefaste della riforma del 2001, che aveva causato tanto conflitti di competenza che paralizzavano le attività di governo centrale e locale. Ma – ed è purtroppo un ma grande quanto una casa – l’art. 117 recita anche “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può̀ intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Quindi, eccezioni ce ne continueranno ad essere, eccome.
In conclusione, possiamo dire che tale riforma, scritta non bene, non sembra stravolgere di molto la vita politica italiana, né sembra apportare miglioramenti significativi alla vita di tutti noi. Votare “SI” o “NO” a tale proposta, quindi, non comporta né quell’apocalisse paventata dagli oppositori di Renzi (alcuni che hanno anche collaborato con lui a scriverla in fase di patto del Nazareno, altri che sono più preoccupati di trovare la frase ad effetto per ottenere più clic sul sito di proprietà), né quella riforma epocale che farà fare all’Italia uno scatto in avanti come dice Renzi, che solo adesso si sta rendendo conto di quanto la personalizzazione di tutto possa diventare dannosa. Legando il destino del suo governo al referendum, infatti, non solo ha commesso un errore “formale” grosso come una casa (è il legislativo che delibera in materia costituzionale, non il governo), ma ha anche messo a repentaglio il suo progetto di governo (che assumiamo ci sia).
La Costituzione è un bene prezioso, e proprio per questo va mantenuta non sclerotizzandola, ma adattandola, facendone salvi i principi, ai tempi. Ma non è la Costituzione a fare degli italiani dei cittadini migliori. Per quello, c’è bisogno del senso civico degli italiani stessi, un bene che ormai è diventato così raro da rischiare l’affidamento al WWF.
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