No a governi tecnici ma incontro tra progressisti e le istanze del M5s
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No a governi tecnici ma incontro tra progressisti e le istanze del M5s

Se avessimo assecondato i propositi del Presidente di Confindustria assisteremmo all’esplosione di una pandemia sociale con sbocchi sul terreno democratico non calcolabili sul piano della pericolosità

Speranza e Conte
Speranza e Conte
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Arturo Scotto Modifica articolo

4 Gennaio 2021 - 17.57


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Il buonsenso non significa automaticamente moderazione.
Vuol dire avere i piedi per terra e comprendere – soprattutto per chi fa politica – dove stanno in questo momento la testa e il cuore  del paese.
Indubbiamente, l’iniziativa di Renzi – che vive soltanto nell’universo della politica del palazzo e nei retroscena dei giornali – non incrocia affatto il sentimento prevalente delle persone, che oggi chiedono sicurezza, protezione, risposte concrete. 
Eppure, Renzi c’è, è un pezzo dell’attuale maggioranza e bisogna fare i conti con la sua iniziativa.
Sarebbe un errore ridurre tutto sul terreno della personalizzazione perché abbiamo visto quali siano stati i risultati nel lungo periodo: un’indebolimento strutturale dei partiti, una spettacolarizzazione patologica del discorso pubblico, un’accentuazione esorbitante della leadership come sbocco naturale alla crisi della democrazia parlamentare. 
Italia Viva è pienamente dentro questa impostazione, configurandosi né più né meno come un partito personale, e su questo terreno alimenta la sua battaglia che si limita – in maniera esplicita – a produrre uno spostamento significativo a destra degli equilibri dell’attuale Governo. 
D’altra parte l’ex rottamatore non ha mai tradito il grumo di interessi economici e sociali che lo hanno accompagnato per un periodo alla scalata della più grande forza progressista del paese.
Gli ha regalato il Jobs Act, mica poca roba.
Andiamo per ordine: l’attuale maggioranza paga il prezzo di non aver consumato nei mesi alcun matrimonio politico duraturo e tangibile. 
Lo vediamo innanzitutto nell’azione quotidiana: si fa fatica a uscire dalla logica emergenziale, dalla dinamica dell’argine al sovranismo. 
Un’alleanza fondata sulla resistenza a Salvini, dopo l’improvvido scarto estivo sui pieni poteri, e che non si è ancora mossa di lì.
Insomma, manca il progetto di paese, la dimensione di una costruzione politica e storica dell’incontro tra lo schieramento progressista e l’insorgenza antiestablishement che si era cementata attorno alla proposta grillina. 
Prevalgono ancora i compartimenti stagni, anche sul territorio dove stentano ancora troppo a decollare relazioni politiche stabili e vertenze comuni coinvolgenti.
Renzi si è insinuato in questa contraddizione e ha suonato la fine della ricreazione: d’altra parte come è evidente da questo quadro politico Italia Viva non ricava alcuna rendita di posizione elettorale. 
E persino il Presidente Conte è percepito come un competitor diretto sul campo da gioco che l’ex rottamatore ha deciso di occupare, dopo l’uscita dal Pd: quando è così – come è noto – non guarda in faccia a nessuno.
Basta soltanto scegliere se il modo di congedare lo sgradito ospite è uno “stai sereno” piuttosto che un “CIAO”.
Questa esperienza di Governo tuttavia va guardata con equilibrio e con rispetto: nella situazione data pochi avrebbero retto un anno così difficile senza saltare in aria. 
Andiamo sui fatti.
Aver gestito un crisi sanitaria inedita nell’ultimo secolo, dopo la stagione dei tagli lineari alla sanità pubblica e con la babele delle competenze regionali dove è emerso un protagonismo inedito dei cosiddetti “governatori”, non è stata un’impresa da poco. 
Siamo arrivati a questo appuntamento con la storia con un tessuto istituzionale estremamente lacerato e con una dimensione statale indebolita, affaticata, ridotta ai minimi termini.
Sono state assunte posizioni difficilissime, al confine con una vasta gamma di libertà individuali e collettive che fino ad oggi avevamo giustamente considerato insindacabili, con il consenso e non con la coercizione, con il dialogo e non con l’imperio, con l’empatia e non con l’autoritarismo.
Immaginiamo per un attimo la destra in campo in questa emergenza: avremmo assistito ogni giorno alla sfilata di negazionismi, no mask, millenaristi e compagnia cantante.
Un incubo.
Aver gestito la crisi economica – con intere attività ferme al palo – provando a coinvolgere le parti sociali ed evitando una mattanza sociale senza precedenti è un merito, l’espressione di una sensibilità persino unica in Europa. 
Già perché siamo stati gli unici a prevedere il blocco dei licenziamenti fino alla fine dello stato di emergenza. Giustamente oggi la Ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, conferma questa scelta anche dopo il 31 marzo per quelle aziende che sono ancora profondamente in difficoltà e stentano a immaginare una ripartenza.
Immaginiamo soltanto se avessimo assecondato i propositi del Presidente di Confindustria: oggi assisteremmo all’esplosione di una pandemia sociale ancora più marcata e con sbocchi sul terreno democratico non calcolabili sul piano della pericolosità e della conflittualità.
Teniamolo a mente.
Aver gestito la partita europea senza cedere alle sirene sovraniste, ma nemmeno ponendosi in maniera supina sotto il tacco del dogmatismo liberista degli ultimi decenni non era affatto scontato. 
Si poteva aprire per la prima volta un cortocircuito distruttivo tra gran parte dell’opinione pubblica e le istituzioni europee. 
La linea dell’esecutivo è stata netta dall’inizio, aprendo il varco alla cosa più somigliante agli Eurobond  ovvero il Recovery Fund, chiudendo la stagione dei sacrifici e dei patti di stabilità.
Ora a Bruxelles si parla la lingua degli investimenti.
Per queste ragioni sono perché questa esperienza vada avanti, correggendo quello che c’è da correggere, ma senza subordinate.
L’attuale quadro politico non suscita le simpatie di un pezzo rilevante dei grandi media, i cui proprietari evidentemente si attendevano servigi molto più consistenti, ma anche di una folta schiera di benpensanti di sinistra che stentano a capire che la rottura tra gruppi dirigenti e popolo delle periferie ha scavato nel profondo e si è rivolto ad offerte politiche nate sull’onda del ripudio delle ricette che avevamo sposato dagli anni 90 in poi. 
Non credo che quella frattura si ricomponga esclusivamente dal Governo. Sarebbe miope e sbagliato: al contrario, l’eccesso di governismo ha scandito per troppi anni l’orologio biologico della sinistra politica, facendole smarrire la funzione principale per cui è nata.
L’organizzazione del conflitto, la funzione pedagogica della battaglia delle idee, l’inclusione di larghi strati della popolazione nella democrazia.
Tuttavia, l’obiettivo di questa compagine giallorossa non può non essere la ricerca di un nuovo affidamento con quei ceti popolari lasciati soli dalla globalizzazione e precipitati nel buco nero della precarietà.
Per questo dobbiamo lottare per preservarla, rafforzarla e proiettarla oltre la contingenza. 
Altri schemi non esistono, sarebbero esiziali.
Se la fase è davvero nuova, essa non può contemplare il ricorso a governi tecnici: sarebbe la certificazione dell’abdicazione della politica.
E dunque della sinistra: perché se chiami a dirigere i competenti quando si tratta di tagliare e chiedere sacrifici sbagli di grosso. 
Se lo fai anche quando si tratta di programmare, investire e spendere ingenti risorse sbagli il doppio.
Non si può fare.

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