Così funziona la macchina dei respingimenti in Libia e nel Sahel con i soldi italiani ed europei.
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Così funziona la macchina dei respingimenti in Libia e nel Sahel con i soldi italiani ed europei.

Il rapporto pubblicato dall’Arci: “Finanziare il confine. Fondi e strategie per fermare l’immigrazione”. A curarlo Sara Prestianni, responsabile Asilo e Immigrazione, EuroMed Rights e Clotilde Warin. 

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

5 Gennaio 2021 - 16.04


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Libia, la vergogna dei respingimenti continua. Oltre 80 migranti, tra cui donne e bambini, sono stati riportati in Libia la scorsa notte dalla Guardia costiera libica. Lo scrive su Twitter l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) in Libia, che in un altro tweet rende noto di aver fornito assistenza a un gruppo di 79 persone, tra cui 13 donne e 7 bambini, anch’essi riportati in Libia dalla Guardia costiera, mentre “altri otto risultano dispersi in mare”.  L’Oim ribadisce che nessuno dovrebbe essere riportato in Libia, perché non è un porto sicuro.

La macchina dei respingimenti

Per capire al meglio come funziona la macchina dei respingimenti, consigliamo vivamente un’attenta lettura del rapporto di 33 pagine pubblicato nel novembre scorso dall’Arci, dal titolo: “Finanziare il confine. Fondi e strategie per fermare l’immigrazione”. A curarlo due bravissime ricercatrici, Sara Prestianni, responsabile Asilo e Immigrazione, EuroMed Rights , e Clotilde Warin. 

Scrive Prestianni: “Dal Gennaio 2020 ad oggi quasi un migrante su due partito dalle coste libiche è stato vittima di una procedura di “respingimento per procura” da parte delle “guardie costiere libiche” supportate e finanziate da Italia e Malta con fondi nazionali ed europei. Una sistematica violazione del principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra, che sembra caratterizzare tutta l’Europa e le sue frontiere esterne: dalla rotta dei Balcani alla frontiera greco-turca (8521 i respinti su questa rotta da marzo a novembre 2020), da Cipro verso la Turchia e più recentemente verso il Libano, e dall’Algeria verso il Niger (6747 dal 20 settembre ai primi di novembre) senza che reali sanzioni vengano imposte ai paesi che compiono i respingimenti. 

Nel Mediterraneo Centrale, dal 1° Gennaio al 2 Novembre 2020, 27.962 uomini, donne e bambini sono sbarcati in Italia, 16.300 in provenienza delle coste Libiche e 11.620 da quelle tu- nisine10.000 sono stati respinti verso Tripoli, abbandonati ad un destino di detenzione, violenze e sfruttamento. Sono più di 500 le vittime nel Mediterraneo nel 2020, molte di più se si contano i naufragi fantasma, spesso frutto di politiche di omissioni di soccorso e della criminalizzazione di chi in mare salva vite umane. Solo tra il 17 e il 20 Agosto si sono susseguiti 4 naufragi, con un tragico bilancio di più di 100 persone decedute. 

La macchina dei respingimenti, che dal 2016 ad oggi ha permesso alla Libia di rinviare al porto di partenza più di 60.000 persone, è il frutto di un’operazione che vede come principale partner l’Italia, con il supporto politico ed economico delle istituzioni europee – principalmente attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa – e, più recentemente, Malta. 

I guasti di quel Memorandum

Rimarca ancora Prestianni: “A tre anni dalla firma del Memorandum of Understanding Italia-Libia del 2017 – rinnovato tra promesse di modifica che sono poi cadute nell’oblio – quanto avviene nel Mediterraneo Centrale risulta sempre più preoccupante. Attraverso la logica di esternalizzazione del controllo delle frontiere, combinata con la politica di criminalizzazione della solidarietà, con la creazione di una zona Sar libica e con l’”inerzia” delle navi di salvataggio nazionali, negli ultimi anni si è lasciato il Mediterraneo alla “Guardia Costiera Libica” con il fine di operare i respingimenti, così aumentando tragicamente anche il numero di naufragi. L’opera di criminalizzazione contro le Ong, tristemente diffusa dal 2017, ha colpito anche i cargo commerciali, indirettamente spinti a cambiare rotta di fronte a barconi e gommoni in pericolo. Il rischio è infatti quello di rimanere bloccati per un mese senza vedersi attribuire un porto sicuro, come successo nel caso del cargo Maersk. Il 5 agosto, le autorità maltesi hanno chiesto alla petroliera battente bandiera danese di accogliere 27 migranti, tra cui minori non accompagnati, che si trovavano alla deriva a 70 miglia nautiche dalla costa libica. Malta ha poi negato al cargo il diritto di attraccare, in spregio alla legge marittima, come chiaro messaggio dissuasivo per le altre imbarcazioni commerciali. La petroliera è stata bloccata in alto mare, con conseguenti perdite economiche, obbligando la crew ed i migranti a sopravvivere in condizioni sanitarie e alimentari disastrose per 40 giorni. In molteplici altre occasioni cargo commerciali, navi petroliere o pescherecci, sono stati intimati a riportare i migranti verso Tripoli

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Affinché diventasse il principale attore ad intervenire nel Mediterraneo Centrale con l’obiettivo di bloccare le partenze e respingere i pochi che riescono a partire, dal 2016 ad oggi la “Guardia Costiera Libica” è stata formata, supportata ed equipaggiata in molteplici contesti: con le operazioni coordinate da EunavFor Med (Sophia e in seguito Irini), con il progetto Ibm dell’Eutfa (coordinato dall’Italia) e, come emerso recentemente, attraverso le attività di Eubam e Frontex. I racconti dei respinti verso la Libia, si assomigliano nell’orrore: scampati ai campi della tortura di Beni Walid, detenuti nei campi ufficiali e poi riusciti ad imbarcarsi, una persona su due viene rinviata nei centri di detenzione o scom- pare in quelli informali. Anche chi vive fuori dai centri resta in balia di una situazione esplosiva, rappresentando moneta corrente per milizie in guerra tra loro. Come viene denunciato da molti, i rifugiati e i migranti in Libia sono intrappolati in un ciclo di gravi violazioni e abusi dei diritti umani, tra cui detenzione arbitraria prolungata e altre priva- zioni illegali della libertà, tortura, uccisioni, stupri, lavoro forzato e sfruttamento, da parte di attori statali e non statali in un clima di quasi totale impunità”. 

 Una conferma viene da Nello Scavo, inviato di Avvenire, tra i pochi a conoscere davvero le segrete cose libiche e la vergogna dei traffici di esseri umani: “Nei campi di detenzione vengono commessi crimini senza colpevoli. Due giorni fa un 15enne richiedente asilo eritreo è stato ucciso da un gruppo di uomini armati in una struttura di detenzione nei pressi della capitale. Altri due sono rimasti gravemente feriti. Neanche ai libici va meglio. Specie se accennano a ribellarsi al sistema mafioso su cui si reggono i poteri locali. A Bengasi non sono stati ancora individuati gli assassini dell’avvocatessa Hanane al–Barassi, attivista per i diritti delle donne e voce critica contro la corruzione di cui si alimenta la corte del generale Haftar”.

Le rotte della morte e i Gendarmi prezzolati

Altro contributo prezioso nel rapporto dell’Arci è quello di Clotilde Warin 

“Bloccare i migranti diretti in Europa e farlo a migliaia di chilometri dal continente europeo, fin dal Sahara: ecco uno dei principali obiettivi della politica migratoria dell’Unione Europea, che ha scelto di frenare i flussi migratori a qualsiasi prezzo e ha delegato Paesi di transito e di origine dei migranti affinché  svolgessero questo lavoro dietro compenso – annota la ricercatrice -.  Grazie al Fondo fiduciario per l’Africa istituito nel 2015, gli Stati partner vengono incoraggiati a sorvegliare i confini difficilmente controllabili, poiché situati nel cuore del deserto e spesso sotto il control- lo di gruppi armati. Per dei paesi in stato di fallimento, i fondi stanziati dall’Ue sono una fortuna da cogliere e il contratto si può difficilmente rifiutare. Il Niger è diventato così il miglior allievo dell’Ue: a maggio 2015, emana subito una legge che criminalizza i passeur e prevede una pena che può raggiungere fino a dieci anni di prigione, i cui risultati statistici sono eloquenti e spesso evidenziati e valorizzati dall’Ue. Nell’arco di qualche anno, il flusso di migranti al confine Niger-Libia attraverso il Sahara è drasticamente diminuito. Secondo i dati citati dal presidente nigerino Mahamadou Issoufou, prima del 2016 i flussi migratori che transitavano dal Niger erano di 100.000 a 150.000 migranti l’anno (negli anni cruciali si stimano fino a 400.000 migranti), per poi passare nel 2019 da 5.000 a 10.000 persone. 

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Questa diminuzione non rispecchia correttamente una realtà più  complessa. Stando ai fatti, i candidati all’esilio non hanno mai smesso di mettersi in viaggio, ma molti di loro hanno scelto altre rotte, più lunghe e più pericolose. Prima del 2015, i pick up di migranti partivano da Agadez una volta alla settimana, scortati dall’esercito nigerino per raggiungere senza complicazioni il confine libico, mentre d’ora innanzi i migranti sono costretti a scegliere rotte molto meno sicure, e vengono talvolta abbandonati in pieno deserto da autisti che temono di essere arrestati dall’esercito. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per la Migrazione (Oim) sono circa 20.000 i migranti soccorsi nel deserto nigerino tra il 2016 e il 2019, ovvero una media di 1.200 persone al mese. Il numero di morti nel Sahara è anche drasticamente aumentato dal 2015, secondo la contabilità tenuta nell’ambito del progetto Missing Migrants dell’Oim. 

Da quando l’asse diretto Agadez-Libia è stato bloccato, certi passeur, per la maggior parte tuareg, hanno scelto di lasciare il Niger e ripercorrere vecchie rotte abbandonate dopo la caduta di Gheddafi all’inizio degli anni 2010, in particolare a nord del Mali. I coaxers (intermediari) e trasportatori maliani che fino ad allora operavano sull’asse Agadez-Assamaka-Inguezam tra il Niger e l’Algeria, sono tornati anche loro a nord del Mali. Con la criminalizzazione del trasporto dei migranti, l’Unione Europea ha involontariamente riaperto delle rotte in un’area instabile: a nord del Mali, il trasporto di migranti non è solo controllato da civili e i migranti sono diventati la preda di gruppi armati che traggono profitto da questa nuova manna. Diversi gruppi ribelli tuareg, membri del Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma) che riunisce vari movimenti tra i quali il Mnla (Movimento nazionale di Liberazione dell’Azawad), o l’Alto Consiglio per l’unità dell’Azawad (Hcua), un’ala dissidente di Ansar Dine, così come il Movimento arabo dell’Azawad (Maa), si sono lanciati nel trasporto di migranti, un commercio lucrativo. 

Il traffico è perfettamente organizzato – spiega  Warin -. Il reclutamento dei migranti inizia spesso già nella capitale, Bamako, dove i principali passeur di Gao si affidano a degli intermediari che intercettano i migranti alla stazione degli autobus e promettono loro un tragitto diretto fino in Algeria. Arrivati a Gao, dopo un viaggio in autobus di diversi giorni, spesso prolungato dalle fermate ai check point durante le quali i migranti vengono regolarmente taglieggiati, sono presi in carico da coaxers e “capi di ghetto”, da alloggiatori di migranti. Numerosi sono gli intrecci: all’arrivo a Gao, i migranti vengono regolarmente tassati dall’esercito maliano, e coloro i quali non possono pagare vengono arrestati e portati dalla polizia, laddove gli agenti chiamano a volte direttamente i coaxers per consegnare loro i migranti. 

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Intrappolati a Gao nelle case di coaxers che lavorano per conto di importanti passeur tuareg o songhai, i migranti possono continuare il loro percorso solo se hanno ancora del denaro o se chiamano le loro famiglie. Il tempo di permanenza dei migranti a Gao può durare da qualche ora a diverse settimane o mesi, il tempo necessario per accumulare la somma richiesta. Nel 2018, il prezzo del tragitto da Gao fino in Algeria era di 85.000 franchi Cfa (130 euro), ma poteva ammontare a 150.000 se non 200.000 franchi Cfa (da 230 a 300 euro). 

La partenza verso Nord avviene da una seconda stazione degli autobus fuori da Gao, una “sta- zione artigianale” o “stazione-traffico”, come la chiamano i migranti, da dove partono i camion per Tumbuctu, Kidal o l’Algeria. Possono salire su un camion all’incirca tra i cinquanta e i cento candidati all’esilio. Altri coaxers fanno salire i migranti su dei pick up in cui sono ammassate non meno di 30 persone. La rotta nel deserto è difficile e dura diversi giorni, a volte più di una settimana, tanto più che i veicoli vengono fermati da uomini armati da cinque a otto volte prima di raggiungere il confine algerino, talvolta in pieno deserto, o nei villaggi, quali Tessalit, Kidal o Aguelhok. Ai check point, i migranti vengono sistematicamente taglieggiati (sono richieste somme tra i 1.500 e i 2.500 franchi Cfa (2 a 4 euro) a ogni sbarramento), minacciati, picchiati o torturati. Li fanno spogliare, sequestrano loro i telefoni, il denaro e i gioielli. Quelli che non hanno soldi possono essere picchiati, mutilati o uccisi. Donne migranti sono anche state vittime di stupri di gruppo, in pieno deserto o nei villaggi di Tessalit e Agelhok, a volte sotto gli occhi dei propri figli. Gli uomini armati che fermano i veicoli portano molto spesso un’uniforme. Nella maggior parte dei check point, è issata la bandiera dell’Azawad, simbolo del territorio autonomo tuareg. Ma alcuni migranti sono stati bloccati anche da un gruppo armato il cui capo era di etnia peul.  In quest’area desertica, in preda a molteplici traffici, in particolare il traffico di droga, i gruppi armati si scontrano in una feroce concorrenza, particolarmente da quando i controlli effettuati dalle forze francesi dell’operazione Barkhane sono diventati molto più sistematici riguardo ai carichi di sigarette da contrabbando o di droga (cannabis, tramadolo). Per contro, secondo le testimonianze raccolte, non sono né le forze di Barkhane, né quelle della MInusma (Missione multidimensionale integrata di stabilizzazione delle Nazioni Unite in Mali) a controllare i veicoli che trasportano i migranti…”.

Così funziona la macchina dei respingimenti e l’holding criminale che si arricchisce trafficando esseri umani. Con la complicità di regimi-gendarmi finanziati dall’Europa. E dall’Italia.

 

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