Dimissioni di Zingaretti: Bonaccini non si presti al gioco dell’Araba Fenice dei renzisti
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Dimissioni di Zingaretti: Bonaccini non si presti al gioco dell’Araba Fenice dei renzisti

C'è da sperare che la decisione apra finalmente la strada a un chiarimento vero sull’identità e i valori non solo del Pd, ma di una sinistra più larga e coesa che vada oltre il Pd. E

Zingaretti e Orlando
Zingaretti e Orlando
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Claudio Visani Modifica articolo

4 Marzo 2021 - 17.59


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“Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni, in piena pandemia, si parli solo di poltrone e primarie… Non si può rimanere fermi, impantanati in una guerriglia quotidiana. Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che dare le dimissioni”.

Nicola Zingaretti si è rotto le scatole. Lascia con dignità. E fa bene. Definitivamente o no lo si saprà solo dopo l’Assemblea nazionale del 13 marzo. Ma qualche riflessione si può già fare. Il Pd è nato male, dal notaio, con separazione dei beni tra Ds e Margherita, più che dall’incontro virtuoso tra le culture e i valori della sinistra e del cattolicesimo democratico. Ha proseguito peggio, col “partito liquido” di Veltroni, poi diventato gassoso, che ha perso il suo radicamento nella società e nei territori, con l’illusione della “vocazione maggioritaria” e con la stagione tragica del renzismo che ha reciso le radici con la sinistra tradizionale, considerata ormai un orpello vintage, e con l’Italia dei più deboli e penalizzati dalla crisi economica e dalla globalizzazione. Il job’s act, lo smantellamento della sanità e della scuola pubblica sono stati l’apice di quella disgraziata stagione, finita con la sconfitta di Renzi al referendum costituzionale del 2016. 

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Il Pd è precipitato dal 41% delle europee al 18% delle ultime politiche, ma è rimasto il partito governista e dell’éstablissement per eccellenza, in gran parte controllato da bande di potere che si sentono ancora orfane di Renzi.  

Zingaretti ha provato a ridare un’anima e una identità popolare al partito. Con la conferenza programmatica del 2019 a Bologna ha chiamato Gianni Cuperlo e Fabrizio Barca a delineare il nuovo profilo di sinistra del Pd. Ma quelle idee innovative per una sinistra moderna che faccia dello sviluppo sostenibile, della giustizia sociale e della lotta alle diseguaglianze il proprio perno, non hanno avuto molto seguito, bloccate come sono da visioni contrastanti.

 Così come si è rivelato finora vano il tentativo meritorio di una rinnovata gestione unitaria del partito da parte del segretario. Le correnti non si sono dissolte e con la nascita del governo Draghi la guerra tra bande è ricominciata, più subdolamente che mai. Cercando di usare il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, come testa d’ariete per indebolire la linea zingarettiana favorevole all’alleanza con Cinquestelle e Leu e riportare renziani e moderati a riprendersi il partito.  

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C’è da sperare  che le dimissioni aprano finalmente la strada a un chiarimento vero sull’identità e i valori non solo del Pd, ma di una sinistra più larga e coesa che vada oltre il Pd. E che Bonaccini – eletto ieri governatore per merito della campagna anti-Salvini delle Sardine e oggi in un paio di occasioni stranamente in sintonia con il leader della Lega – non si presti al gioco dell’Araba Fenice dei renzisti. Far prevalere gli interessi personali o di corrente nella situazione che stiamo vivendo sarebbe davvero imperdonabile.

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