Cuperlo: "Il Pd è più forte nel Palazzo che nel paese, serve ricollocare il nostro progetto"
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Cuperlo: "Il Pd è più forte nel Palazzo che nel paese, serve ricollocare il nostro progetto"

Lo storico dirigente della sinistra: "Da quindici anni non vinciamo un’elezione politica e nonostante ciò per oltre undici di questi quindici anni siamo stati al governo del paese"

Gianni Cuperlo
Gianni Cuperlo
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Marzo 2021 - 17.23


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Dobbiamo partire dalle dimissioni di Zingaretti e da quell’espressione “provo vergogna”, più che uno sfogo una sentenza sul partito che ha guidato per due anni. La domanda non può che essere una: il Pd è un partito finito?

No, ma per salvarlo deve essere cambiato radicalmente: dal basso, da dentro e da fuori Come molti ho espresso vicinanza a Nicola, ma quella frase ha colpito anche me. Mi è capitato di ricordare come i due segretari più longevi nella storia del Pd abbiano dato vita a due scissioni. Le parole di Nicola confermano un limite di identità di questa forza e allora abbiamo il dovere di affrontare una discussione rinviata troppo a lungo che è come ricollocare questo progetto nella storia del paese. Parlo del suo modo di discutere, organizzarsi, selezionare una classe dirigente, e del rapporto che vogliamo avere con energie, reti, movimenti, che non incrociamo più. 

Pare l’ennesimo appello a una rifondazione del Pd, ma è ancora un traguardo possibile?

Non mi nascondo nessuna delle difficoltà di ora. All’ultima direzione ho detto che siamo forti nel Palazzo e fragili nel paese, e intendevo esattamente questo. Siamo un partito stretto nella sua vocazione governista più che maggioritaria. E guarda che non banalizzo il tema del governo, so quanto vale se hai l’ambizione di restituire diritti e dignità a chi ne è privo, e del resto in questi anni abbiamo strappato vittorie importanti con sindaci e governatori capaci. Però da quindici anni non vinciamo un’elezione politica e nonostante ciò per oltre undici di questi quindici anni siamo stati al governo del paese. Il pericolo allora è quello di fare del governo un fine e non un mezzo, però questo rende esile la trama che aggancia una cultura politica alla parte di società che scegli di rappresentare. 

Detta così viene da pensare che vi fosse un vizio di origine. In fondo fu Veltroni al Lingotto a porre il tema della vocazione maggioritaria?

Sì, ma in un contesto completamente diverso. Con un bipolarismo che pareva irreversibile, proteso a un bipartitismo e con una dinamica dove il maggioritario sembrava un metodo dal quale non saremmo più tornati indietro. Di lì a poco quel bipolarismo sarebbe stato disarcionato dai 5 Stelle mentre da mesi discutiamo di un ritorno al proporzionale. Non si tratta di dettagli. A fronte di uno scenario mutato hai la necessità di ripensare anche a forme e regole del soggetto politico.

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Capisco, ma prima tre mesi a cercare di difendere Conte, poi le polemiche sul congresso, ora le dimissioni di Zingaretti. A questo punto da dove pensi si debba ripartire?

Forse la risposta sta in alcuni numeri. Nell’ultimo anno 335mila famiglie sono precipitate nella povertà assoluta. In totale sono oltre due milioni. Significa un milione di persone in più che si aggiunge ai quattro milioni e mezzo che c’erano già. Tra i minorenni tocchiamo l’incidenza più alta dal 2005. La pandemia è anche questo. Una forbice della disuguaglianza che si allarga con la spesa per consumi delle famiglie tornata ai livelli del 2000. La sinistra e il Pd devono mettere questo dramma in cima a tutto. Va fatto con le azioni mirate di governo, Regioni e sindaci, ma assieme deve essere il primo messaggio che arriva all’esterno. Perché la sinistra è credibile quando fa il suo mestiere, parla a tutti e si batte per affrancare la parte più colpita nei propri bisogni. Perde quando non sa che dire a una comunità orfana di rappresentanza per la quota di società nata o rimasta indietro. A quel punto a offrire soluzioni possono essere una tecnica senza umanità o una destra senza progetto. Compito di ora è respingerle entrambe. Il problema riguarda il come.  

Appunto il come. Potrei dirti che i partiti sono nati per questo: garantire rappresentanza a interessi privi di potere. Ma l’impressione, è che voi facciate fatica a interpretare proprio quella funzione. È così?

In parte è così. Da tempo viviamo il distacco tra la capacità amministrativa, quella che si misura con la quotidianità dei problemi, e l’identità di chi fatica a definire l’idea di società per i prossimi dieci o vent’anni. Non è che manchino i titoli. Parlare di transizione ecologica implica politiche pubbliche in controtendenza col mainstream degli ultimi trent’anni. Lo stesso se ragioniamo di uno Stato che riscopre una azione programmatrice innovando la missione delle grandi società che controlla, parliamo di energia, mobilità, comunicazioni, intelligenza artificiale. Potrei dirti del ruolo di una formazione permanente o la necessità di investire sulla ricerca, ma nella chiave tedesca di un trasferimento di conoscenze e tecnologie sulle filiere produttive del nostro modello d’impresa, fino a un welfare da fissare attorno allo snodo demografico e a una redistribuzione di risorse per giovani e donne.

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E questo è un elenco di obiettivi, ma la domanda riguardava il soggetto. Cioè pensi che il Pd sia ancora in grado di garantire il consenso necessario attorno ai traguardi che hai appena elencato? 

Ma vedi, da mesi con altri stiamo dibattendo un documento, “Radicalità per Ricostruire”, dove i capitoli che ho accennato sono tenuti assieme da un filo tutt’altro che esile, ed è il bisogno di accompagnare alle proposte programmatiche un quadro di alleanze politiche, sociali, territoriali, se solo pensi all’urgenza di riconnettere un paese che già gli arabi battezzavano “troppo lungo” e che questa crisi rischia di allungare ancora di più col pericolo di avere non una, ma due Italie. 

E torniamo al “come”.

Appunto, torniamo al “come”, sapendo che la tragedia di questi mesi ha riproposto aspirazioni da decenni scivolate fuori dagli sguardi. Per prima una domanda di giustizia. La verità è che la pandemia ha travolto certezze maturate nell’arco di generazioni, sulla garanzia del lavoro, di una scuola per i figli, di una parità di diritti tra i generi. Milioni di famiglie non si angosciano sulle prossime vacanze. Si chiedono i tempi della vaccinazione, se avranno forza per resistere all’onda, se potranno rialzarsi. Basterebbe questo a dire dello spazio per la politica, per il ruolo di partiti fondati su culture capaci di suscitare passioni, l’impulso a reagire.

Però anche nel guardare avanti emergono le differenze. Ieri su questo giornale Petruccioli ha invitato il Pd a scegliere tra Tronti che vi invita a liberarvi dall’ossessione dei 5Stelle e Bettini che denuncia il complotto della borghesia italiana contro Conte. Secondo Petruccioli il governo Draghi è una grande opportunità per il Pd e un enorme passo avanti per il Paese. 

Ho visto che Petruccioli ha accusato Bettini di avere scambiato Conte per Allende. Mi permetto di replicare che aver fatto il governo coi 5Stelle ha consentito a quella forza di evolvere verso un approdo europeista forse un tantino più credibile della sterzata di Salvini, ma al di là di questo, con quel governo abbiamo riportato l’Italia dove deve stare, a Bruxelles e non in viaggio verso Budapest. Non mi pare un dettaglio. Quanto a Draghi, va sostenuto senza ambiguità fosse solo perché dal piano dei vaccini ai fondi europei dalla sua riuscita dipenderà la tenuta del paese. Detto ciò, se Conte non è Allende, tra i tecnici di grido chiamati a salvare la patria non vedo l’incarnazione di Ciampi e Olivetti. Draghi è una sicurezza per standing e capacità. Guida un governo con dentro Lega e Forza Italia, lo considero un passaggio necessario, fatico a viverlo come approdo per una alternativa che dobbiamo costruire a partire dal Pd, ma sapendo che il Pd da solo non basta, che poi è il tema posto in questi mesi nella chiave di un’alleanza coi 5Stelle, LeU, e che non deve limitarsi a quello. Insomma, mi piacerebbe capire con chi dovremmo costruire il campo largo per tornare a vincere nelle urne. Con la vocazione maggioritaria? 

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Stai dicendo che il congresso del Pd dovrà somigliare più a una Svolta che all’aggiustamento dello Statuto?

Sì, ti sto dicendo che penso a un percorso democratico, partecipato, per una discussione sull’identità di un Pd che va ripensato e ricostruito. Il punto è che i nomi in politica servono, e però sono sempre conseguenza di conflitti. A conferma, neppure ora siamo immersi in una palude. Altrove la sinistra affronta le novità con qualche coraggio. Dovremmo averlo anche noi. 

In che modo?

Nel vecchio mondo, quello del progresso lineare, a pesare era il disegno collettivo. Ora è l’idea stessa di progresso a recuperare quello che decidiamo di essere. La sintesi è un ciclo storico dove il testimone passerà da un progresso necessario a uno sviluppo possibile. Difficile magari, e dunque avverabile solo se poggiato sulla volontà degli individui. Niente di nuovo, la forza dei movimenti è sempre stata nel condizionare la qualità delle riforme. E allora è giusto affrontare il tema: possiamo concedere a un capitalismo che si è mostrato impreparato dinanzi alla pandemia di proseguire la corsa indisturbato? Di seguitare a innalzare i profitti senza cedere un metro al diritto alla vita degli ultimi? Vorrei che il mio partito questa discussione avesse la volontà di affrontarla perché se lo facesse alcuni dei limiti di ora sarebbero superati. 

 

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