Detenuti manganellati, presi a pugni, calci, schiaffi. O ginocchiate. Umiliati, insultati, in balia trattati come larve umane. Il tutto filmato. Non siamo nell’Argentina di Videla o nel Cile di Pinochet. E neanche, per venire ai giorni nostri, nell’Egitto di al-Sisi o nella Turchia di Erdogan. O nei lager libici.
Siamo in Italia, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Quel filmato ci riporta ad Abu Ghraib, nel carcere di Baghdad diventato tristamente famoso per le torture e le umiliazioni, fisiche, psichiche, sessuali, a cui i detenuti presunti jihadisti venivano sottoposti dai soldati americani. Nel carcere italiano non siamo a quel livello, ma poco ci manca. Il filmato documenta le violenze subite dai detenuti da parte di una cinquantina di guardie carcerarie. Al giovane straniero tocca anche l’umiliazione di camminare in ginocchio perché dopo averlo picchiato, gli intimano di andare a mettersi con la faccia contro il muro, ma lui non riesce più a stare in piedi, e dal centro della stanza è costretto praticamente a strisciare fino a dove gli hanno ordinato di mettersi. Il racconto che fa il gip, basandosi sull’incrocio tra le immagini e la testimonianza del detenuto, può essere considerato la sintesi dell’inferno vissuto dai reclusi del reparto Nilo.
“Dal minuto 19,20 al minuto 44,26 – scrive il giudice facendo riferimento al timer della videoregistrazione – il detenuto veniva costretto a rimanere in ginocchio e veniva ripetutamente colpito con manganelli, calci e schiaffi». L’uomo, aggiunge il gip, «rimaneva in balia delle sevizie e dei soprusi» di due agenti, «ai quali si univano in sequenza altri colleghi, fino a raggiungere il numero complessivo di sei”.
Ora, di fronte a questo scempio, la politica, in un Paese civile, dovrebbe unirsi per deprecare l’accaduto e per chiedere che i responsabili siano individuati e perseguiti. Evidentemente, l’Italia non è un Paese normale. Perché i manganellatori in divisa ricevono subito l’entusiastico sostegno di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Bene, bravi, bis. Che vuoi che sia qualche pugno o le maniere dure nei riguardi di quella feccia umana. Se stai in galera qualche cosa hai fatto, non sei un santo. E allora…E allora, sta di fatto che uno dei difensori dei manganellatori sia un politico il cui partito è parte di una coalizione di governo. Lui, Salvini, non ricopre incarichi ministeriali, e ci mancava pure questo, ma la Lega pesa, eccome pesa, nel “governo di alto profilo” guidato da Mario Draghi. E Georgia meloni si candida ad essere la Marine Le Pen de noartri, pronta a entrare a vele spiegate a Palazzo Chigi. Ora capite perché costoro, e le forze politiche che rappresentano, della vicenda Regeni non è mai fregato niente, e neanche di Patrick Zaki. “Vogliamo ricostruire buoni rapporti con l’Egitto. Io comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni. Ma per noi, per l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto”. Sono le parole pronunciate dal vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini, intervistato mercoledì 13 giugno 2018 dal Corriere della Sera: un concetto che Salvini ha espresso anche in tv a Otto e mezzo (“C’è da fare chiarezza piena sull’uccisione di Regeni, ma l’Egitto è un Paese troppo importante perché l’Italia non abbia relazioni stabili”).
Per l’europarlamentare di LeU Sergio Cofferati “le parole del ministro Salvini sono semplicemente raccapriccianti. No, signor ministro, la richiesta di verità e giustizia per Giulio Regeni non è un problema della famiglia, è un problema del nostro Paese. La difesa della libertà e dei diritti umani sono elementi fondativi della nostra democrazia e non sono negoziabili”. La segretaria di Possibile Beatrice Brignone annota come “per Salvini l’omicidio di Giulio Regeni è solo un ‘problema’. Quasi un fastidio che il ministro dell’Interno non vede l’ora di derubricare, in nome della relazione diplomatica con l’Egitto di al-Sisi. Un comportamento spietato, proprio come abbiamo già visto con i migranti della nave Aquarius, che antepone il calcolo elettorale alla ricerca della verità sulla morte di un giovane. In questo caso, addirittura, viene accantonato l’orgoglio sovranista, tanto in voga nell’asse pentaleghista”.
Per i Salvini e le Meloni, al-Sisi è un modello. Come lo sono Erdogan e Putin. Le carceri turche, come quelle egiziane e russe, sono il regno dell’impunità per gli aguzzini in divisa. La tortura è pane quotidiano, le sevizie, di ogni genere, sono la normalità, non l’eccezione. E chissenefrega di ottenere verità e giustizia per Gilio Regeni: se l’è voluta lui, non doveva ficcare il naso in certi ambienti. Chi veste una divisa va difeso sempre e comunque. Soprattutto se ha di fronte dei criminali. O se deve respingere l’”invasione” di migranti come, secondo costoro, fa la Guardia costiera libica. Ora capite bene perché i il reato di tortura sia stato introdotto nel nostro ordinamento solo dopo le pressioni esercitate in ambito europeo e internazionale in quanto nel Codice penale originario non era previsto. Così nel 2017 la legge numero 110 ha introdotto anche in Italia il reato di tortura, precisamente all’articolo 613 bis e 613 ter del Codice penale, recependo – finalmente – le indicazioni della Convenzione di New York del 1984 sulla repressione della tortura nel mondo. Adesso in Italia la tortura è considerato un reato contro i diritti dell’uomo, ed è punita severamente in base alle lesioni inflitte sulla vittima, se questa muore il torturatore è condannato all’ergastolo. Il 12 luglio 2018, la leader di Fratelli d’Italia posta questo video-tweet: “Fratelli d’Italia ha presentato due proposte di legge per aumentare le pene a chi aggredisce un pubblico ufficiale e per modificare il reato di #tortura che, così com’è codificato oggi, impedisce alle forze dell’ordine di svolgere il proprio lavoro. Difendiamo chi ci difende!
E per Meloni a “difenderci “sono anche i picchiatori di Santa Maria Capua Vetere. Per chi la vede così, merita la cittadinanza onoraria di Guantanamo.
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