"Basta sbarchi, subito il blocco navale": la fascio-demagogia di Giorgia Meloni non va in ferie
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"Basta sbarchi, subito il blocco navale": la fascio-demagogia di Giorgia Meloni non va in ferie

La demagogia in estate si alimenta e alimenta paure, rancore, insicurezza. E mobilita i tanti sciacalli da tastiera in servizio effettivo permanente. Il ruolo della capa di Fdi

Giorgia Meloni
Giorgia Meloni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

25 Luglio 2021 - 12.59


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Niente da fare. La fasciodemagogia non va in ferie. Anzi, in estate si alimenta e alimenta paure, rancore, insicurezza. E mobilita i tanti sciacalli da tastiera in servizio effettivo permanente. Giorgia Meloni torna all’attacco. E unisce ciò che chiunque abbia un briciolo di coscienza e due neuroni funzionanti, non potrebbe mai mettere in conseguenza. Lei sì. “Mentre agli italiani si continuano a chiedere sacrifici, tra restrizioni e limitazioni della libertà, non si fermano gli sbarchi illegali sulle nostre coste”.

Lo scrive su Facebook la leader di Fratelli d’Italia. “Possibile che per il governo italiano tutto questo sia normale? Basta sbarchi”, aggiunge.

La fasciodemagogia

Alla leader con l’elmetto non è bastato il rifinanziamento della Guardia costiera libica, pagata profumatamente per fare il lavoro sporco a posto nostro. Per inciso, va ricordato che alla Camera il voto dei deputati di Fratelli d’Italia si è unito a quello dei parlamentari della maggioranza (esclusi trenta dissidenti). Ma lei pretende di più. “Basta sbarchi”, proclama dal balcone di Piazza Venezia. Un balcone “mediatico”, almeno per il momento. E come si dovrebbero impedire gli sbarchi?. L’”ammiraglio” Meloni non lo esplicita. Non ne ha bisogno. Perché lei un’idea in proposito l’ha già manifestata da tempo.

Il blocco navale

La sua genialata si chiama blocco navale. “Il blocco navale che chiede Fratelli d’ Italia è una missione militare europea, fatta in accordo con le autorità del Nord Africa, per impedire ai barconi di partire in direzione dell’Italia.  È l’unica misura seria per contrastare il business dell’immigrazione clandestina e fermare una volta per tutte le morti in mare. Ma capisco sia un discorso troppo difficile da comprendere per i paladini dell’accoglienza a tutti i costi”. Così su Facebook la presidente di Fratelli d’ Italia, il 10 maggio scorso. 

Ora, per implementare il blocco navale – rileva un report del Geopolitical Center – dovrebbero  essere impiegati almeno 5000 uomini sul terreno, a difesa delle struttura strategiche, 4/6 droni da media e bassa quota per la sorveglianza delle coste, una nave con funzioni di comando e capacità di appoggio aereo per la quale immaginiamo la portaerei Cavour, due cacciatorpediniere per la protezione aerea nel caso in cui un Mig libico volesse compiere un attacco contro la nostra portaerei, una decina di unità minori, corvette e pattugliatori per imporre fisicamente il blocco navale e chiare regole di ingaggio, onde evitare che i nostri uomini diventino bersagli impotenti di terroristi e scafisti. 

Se si vuole stabilizzare per davvero la Libia, dice a Globalist il generale Fabio Mini, ex comandante Nato, ora brillante saggista, servirebbero ”come minino 50 mila uomini per controllare il territorio, fermare le auto, sorvegliare gli spostamenti, schedare le persone”. E occorrerebbe mettere in conto almeno 50 morti a settimana.

Gli fa il generale Franco Angioni, già comandante del contingente italiano nella missione di pace “Libano 2” e delle Forze Terrestri Alleate del Sud Europa. “Voler considerare la Libia di oggi come se si trattasse di una nazione organizzata su principi di carattere politico e strategico tradizionali, è una bestemmia – annota Angioni -. L’attuale confusione esistente in quest’area nordafricana a noi particolarmente conosciuta non consente di esprimere sulla Libia di oggi qualsiasi considerazione logica e avveduta. A regnare oggi in Libia è il caos, un caos armato, è la confusione, l’illecito, la malvagità, gli interessi più abietti che possono essere presi in considerazione in una comunità umana. La tragedia della Libia coinvolge esseri umani che con la Libia non hanno nulla a che fare e che anzi sarebbero ben felici di non essere in quel territorio, in quell’inferno.  Purtroppo per l’umanità, la Libia è la meta di decine di migliaia di persone dell’Africa disperate al punto di essere disposte a correre il rischio di essere uccise pur di avvicinarsi all’Europa. La Libia – rimarca il generale Angioni – è ancor oggi una ‘palestra’ di arroganza nella quale agiscono attori esterni che conducono una guerra per procura. Pensare di poter affrontare questa situazione con qualche nave è una sciocchezza, una pericolosa sciocchezza. Sarebbe auspicabile che un organismo sovranazionale, come l’Onu ad esempio, imponesse con decisione la propria presenza non tanto per risolvere la drammatica situazione che segna la Libia ma almeno per ridurre il numero delle vittime”.

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Acque contese 

C’è poi la questione cruciale, anche nella vicenda del sequestro dei 18 pescatori di Mazara del Vallo, delle “acque contese”. Scrive Alessandro Puglia, in un documentato report su Vita: “Un mare dove nessuno deve vedere, scomodo, in cui ciò che è lecito viene stabilito di volta in volta, senza testimoni. Un mare dove se cali la tua rete da pesca devi stare attento perché puoi essere sequestrato, minacciato con le armi e magari rinchiuso in uno dei tanti lager dove ogni giorno centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini vengono torturati. No, questo non è un mare lontano. É il nostro mare, il Mediterraneo Ma cos’è accaduto da quando uno stato diviso in più fazioni e in guerra come la Libia ha istituito la sua zona Sar che per i non addetti ai lavori significa letteralmente “ricerca e soccorso in mare”? E cosa c’entra il Golfo di Sirte? Beatrice Gornati, dottore di ricerca in diritto internazionale all’Università degli studi di Milano esperta in traffico di migranti nel Mediterraneo spiega: ‘Bisogna tenere presente che nel 1973 la Libia dichiarò che il Golfo di Sirte fosse parte delle sue acque interne: il Golfo fu annesso attraverso una linea di circa 300 miglia, lungo il 32°30’ parallelo di latitudine nord. Tuttavia, tale rivendicazione fu respinta da un gran numero di Stati, inclusi i principali membri dell’Unione europea (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito). A seguito di questo episodio, nel febbraio 2005, la Libia stabilì inoltre, tramite una decisione del Libyan General People’s Committee, una zona di protezione della pesca, nel rispetto della General People’s Committee Decision No. 37 del 2005. Anche in questo caso, la delimitazione stabilita dalla Libia incontrò le proteste di diversi Stati e della Presidenza dell’Unione europea: considerando infatti che la Libia aveva rivendicato il Golfo di Sirte quale parte delle sue acque interne, le 62 miglia di zona di pesca da essa reclamate sarebbero state contate a partire dalle 12 miglia dalla linea di chiusura del golfo. Peraltro, nel 2009, la Libia dichiarò una ZEE (zona economica esclusiva) ‘adjacent to and extending as far beyond its territorial waters as permitted under international law’ ,il cui limite esterno, ad oggi, non è ancora stato tracciato.  il 28 giugno 2018 lImo (Organizzazione Marittima internazionale) ufficializza quello che in passato appariva come un’utopia e registra su comunicazione delle autorità libiche la zona Sar (Search and rescue) libica con un proprio centro di coordinamento di soccorsi (Jrcc). Registrandosi sul sito è possibile consultare alcuni dati, visionare la mappa e conoscere altitudine e longitudine dell’area in questione. Muniti di carta nautica, abbiamo calcolato queste distanze. Dalla costa di Tripoli alla linea rossa di confine le miglia sono circa 116,25. É chiaro quindi perché i pescatori siciliani hanno tutto il diritto di dire oggi che da un anno a questa parte i libici ‘si sono presi mezzo Mar Mediterraneo’. Il capitano Raimondo Sudano (uno dei rappresentanti dei marinai di Mazara del Vallo, ndr) aggiunge: ‘E questo avviene anche grazie all’Italia che dà alla guardia costiera libica i mezzi di sostentamento per fare la Guerra a noi italiani che andiamo a lavorare onestamente. I libici si sono ora fatti anche furbi, oltre che con le motovedette vengono a fare gli abbordaggi in mare con le barche da pesca e subito dopo arrivano i loro gommoni e non hai neanche il tempo di chiamare le autorità italiane che vieni sequestrato con tutto il pescato e trattato come un terrorista”.

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“La paura di tornare in mare è tanta  – rimarca ancora Puglia -e si sovrappone a quel senso di abbandono da parte dello Stato che non tutela i suoi pescatori. Scrive l’esperto Fabio Caffio che, pur ricordando l’impegno passato della nostra Marina nello Stretto di Sicilia e nell’Adriatico dall’aggressività jugoslava, rimarca: ‘Diverso invece l’impegno della Marina nella zona di acque internazionali ove ricade la Zpp libica: non risulta infatti che la Forza Armata abbia ricevuto alcuna direttiva di proteggere da vicino ed in modo continuativo l’attività di pesca dei connazionali contrastando la pretesa libica”

Il reportage è del 24 maggio 2019. Il titolo era: “La denuncia dei pescatori siciliani: ‘così i libici si sono presi il Mediterraneo’”.

Sono trascorsi più di due anni d’allora.. E quel titolo è drammaticamente attuale. E ciò che rende ancora più intollerabile la situazione, è che i libici “si sono presi il Mediterraneo” anche grazie ai finanziamenti italiani alla cosiddetta Guardia costiera libica – oggi sotto il controllo turco – e al fatto che, per “paura” di dover salvare migranti, le navi della nostra Marina militare non possono avventurarsi in mare aperto. Quel mare che da tempo non è più “nostrum”.

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“Quisquilie”

Poi, ci sarebbe una “quisquilia” per la sovranista Meloni: lo statuto delle Nazioni Unite. . Il blocco navale è disciplinato dall’articolo 42 dello statuto delle Nazioni Unite ed è un’azione militare finalizzata a impedire l’accesso e l’uscita di navi dai porti di un Paese o di un territorio. Esso non è consentito al di fuori dei casi di legittima difesa. Inoltre “Il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato” è definito come un vero e proprio atto di aggressione, anche in assenza di dichiarazione di guerra, dall’art. 3, lettera C) della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 3314 (XXXIX) del 14 dicembre 1974. I criteri per attuarlo sono stabiliti dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e 1977 sui conflitti armati via mare.  
1)Prima di attuare il blocco navale la forza militare che lo attua deve comunicare alle nazioni terze non belligeranti la definizione geografica della zona soggetta al blocco stesso; 2) il blocco navale deve essere imparziale nei confronti delle nazioni non belligeranti; 3) una volta attuato consente la possibilità di catturare qualsiasi imbarcazione mercantile che violi il blocco e il suo deferimento a un apposito tribunale delle prede; 4) consente, altresì, la possibilità di attaccare qualsiasi imbarcazione mercantile nemica che opponga resistenza al blocco navale; 5) l’obbligo da parte della forza militare che attua il blocco di permettere il passaggio di carichi contenenti beni di prima necessità e medicinali per la popolazione locale. Per impedire l’avanzata delle navi con a bordo i migranti, le imbarcazioni militari di vedetta devono attuare delle manovre strategiche (spesso utilizzate in tempi di guerra), una di queste è la navigazione a cerchi concentrici che restringe sempre più il raggio di navigazione della nave clandestina.

Respingimenti senza fine

Negli ultimi quattro giorni, più di 1.500 migranti sono stati intercettati dalle autorità libiche”.   E’ quanto scrive su Twitter la portavoce di Un Migration-Oim, Safa Msehli, aggiungendo criticamente “il Mediterraneo è uno degli esempi più tristi di risposte inefficaci e disumane alle migrazioni”. Da lungo tempo infatti le Organizzazioni internazionali si dimostrano contrarie al fatto che la Guardia costiera di Tripoli riporti in Libia le persone intercettate in mare, poiché a loro dire i centri di accoglienza libici non tutelano a sufficienza i diritti umani.

 L’ultimo report del progetto “Missing migrants” dell’Oim calcola che almeno 896 persone, donne, bambini, uomini hanno perso la vita in mare o risultano disperse, nei primi sei mesi di quest’anno nei quali circa 75mila persone hanno tentato la traversata. Un numero di morti drammaticamente alto, se si pensa che lo scorso anno nello stesso periodo erano state 389 su un totale di quasi 48mila partenze. Nel 2019 erano state 615 su quasi 58mila partenze. 

Ma alla presidente di Fli non basta. Se fosse per lei, li ricaccerebbe tutti nei lager. O in fondo al mare. 

 

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