Sono le 20 e 20 di sabato 29 gennaio: Sergio Mattarella raggiunge il quorum dei 550 voti. Scatta l’applauso in un’aula di Montecitorio. Un’aula non piena, con gruppi di grandi elettori: un’immagine che ricorda come questa elezione avviene in un paese che si trova ancora in piena pandemia. L’applauso è lungo e convinto: in prima fila Letta e i dirigenti del Pd. Esultano o quasi. Aver parlato poco, avere dimostrato di avere la pazienza di Giobbe sia nello schivare l’irruenza verbale di Salvini sia nel respingere le pretese egemoniche del centro-destra, ha ripagato Letta e i suoi. Ma a esser ripagato è stato anche quel gruppo di deputati e senatori che, con insistenza e contro i mutevoli venti, ha continuato a scrivere sulla scheda il nome del Presidente uscente.
Commentatori spiazzati e politici sconfitti, mentre era ancora in corso la votazione, cercavano di spiegare il loro fallimento. Lo facevano arrampicandosi sui proverbiali specchi e sostenendo che quest’approdo sarebbe solo la dimostrazione del collasso del sistema politico. Salvini e Conte erano in cerca, entrambi, in quegli stessi attimi, di difficili parole che fossero capaci di spiegare al loro lettorato e all’opinione pubblica, i motivi delle scelte della serata e notte decisiva. Scelte che puzzavano lontano un miglio di un possibile rovesciamento dell’alleanza di governo e il rifiorire di vecchi amori che riaffiorano dopo le brutte liti e i tradimenti reciproci nell’ingloriosa fine del governo giallo-verde. A collassare è stato, semmai, un certo modo intendere la politica. Il parlamento non è un talent televisivo. L’elezione di un presidente non può nemmeno esser scritta o raccontata, seppure in forma più nobile, come un “romanzo quirinale” I partiti, seppure una grande crisi, esistono; gli elettori non sono follower di questo o quel social.
A questa giornata si è arrivati come somma di tanti errori e come necessità di tornare a norme e regole democratiche stanno dentro lo spirito della costituzione. Di errori ne sono stati fatti tanti, troppi: dalla conferenza stampa dicembrina del presidente del consiglio all’insistenza degli esponenti del centro destra ossessionati dall’idea di esser diventati egemoni nel paese e nel parlamento, confondendo aspirazioni e numeri; dall’inutile e lunga attesa della risposta alla pretesa di Berlusconi a improvvisati “kingmaker” che proponevano listini di nomi “à la carte”. Tutti questi politici, Salvini in testa, anziché essere gli artefici del successo di un loro re o di una loro regina hanno dovuto ritirarsi, sdegnati, nelle tende del loro campo. Questo avviene quando quando la motivazione che li ispira tende più a cercare il successo personale anziché quello di un interesse e di un bene pubblico
A questa giornata si arrivati perché si è assistito al crollo della “dichiarazia”. Qualche anno fa, Mario Portanova in un suo bel libro, descriveva una repubblica fondata sulla chiacchera dove dichiarare non stanca mai; dove dichiarare finisce per annebbiare o mutare la realtà al fine di assicurare carriere e poltrone. Magari usando un gergo, il politichese, che dice e non dice , che si regge su banali stereotipi. Qualche esempio? “Profilo di alto prestigio; abbiamo lavorato per; una figura super-partes; proposta di qualità; una proposta larga; una rosa ristretta. E via blaterando. Chi non ha aderito alla “repubblica della dichiarazia” stasera può raccoglierne i frutti e noi tutti tirare un sospiro di sollievo. E nei prossimi giorni inizierà la resa dei conti in non pochi partiti. A partire da quelli giallo-verdi.
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